Numero 22

Tabula rasa

di Mara Abbafati

 

Aracne di Andrea Bondini

Suo padre scese le scale per andare in cantina, era buio, armeggiò sulla serratura per infilare la chiave e quando finalmente riuscì ad aprire la porta fu colpito in faccia da un tanfo asfissiante. Tossì e sputò a terra un rigurgito acido che gli era risalito dalla bocca dello stomaco vuoto. Quando toccò l’interruttore la luce emise un lampo. Si era fulminata.

– Papà, non me lo voglio portare il secchiello, gridò Leo dalla cima della rampa di scale.
– Ma ti piaceva tanto.
– Quando ero piccolo.
– Hai sette anni, sei ancora piccolo.

La cantina puzzava di muffa e di topi morti, avrebbe preferito non doverci entrare ma le cose del mare in casa non ci stavano. Leo faceva sempre i compiti sul tavolo della cucina perché nella sua cameretta non c’era spazio nemmeno per la scrivania.
Il padre tornò su con una borsa di plastica rossa, dentro c’erano un paio di asciugamani, un tubetto di crema solare incrostato di sabbia, un paio di sandaletti di gomma blu e un giornale di enigmistica.

– Non l’hai preso il secchiello?
– No. Ci hai ripensato?
– Macché.

Entrarono in casa, Leo si fermò nell’ingresso e si provò i sandali, ma il piede gli era cresciuto e non riusciva nemmeno a infilarseli.

– Quando mi porti dai nonni?
– Domani mattina.
– Non ci voglio andare.
– E con chi ti lascio adesso che la scuola è finita?
– Ci so stare a casa da solo.
– Sei piccolo.

Squillò il telefono, Leo prese i sandaletti blu, andò in cucina e li buttò nel secchio sotto il lavello. Poi aprì il frigorifero, prese un succo all’albicocca, accese la televisione e si mise a guardare un cartone. La telefonata prese una brutta piega, suo padre urlava e lui dovette alzare il volume per riuscire a seguire quello che stava succedendo nell’episodio di Yattaman. Poi si sentì sbattere la cornetta «Leo, devo uscire. Guarda i cartoni, io torno subito».
Yattaman finì e poi finirono anche Carletto e Mazinga, ma suo padre non tornava. Leo spense la tv e se ne andò in cameretta a dormire, con l’abat-jour accesa. Si svegliò in piena notte con il fiatone, un incubo lo aveva scaraventato in fondo al letto, corse in camera di suo padre ma lui non c’era e non era nemmeno in cucina, né in bagno. Sentì un po’ di paura battergli nel petto, da dentro, faceva un rumore sordo e bruciava gli occhi. Aspettò ancora un po’ finché l’alba non comparve alla finestra e allora si decise a chiamare i nonni.
Il padre di Leo sembrava scomparso nel nulla, non c’era nessuna traccia né di lui né della sua macchina, lo dissero anche qualche giorno dopo a Chi l’ha visto? e continuarono a dirlo per diverse settimane, finché il fatto non venne completamente dimenticato da quelli del programma e anche da tutti gli altri. Leo, invece, se lo ricordò per parecchio tempo. Se lo ricordò il giorno in cui dovette prendere tutte le sue cose dalla cameretta e portarle dai nonni, quando dovette cambiare scuola, quando non seppe a chi raccontare di come si sentiva infuocare le guance quando passava Marina della terza B nel corridoio della scuola media.
Poi un giorno Leo venne investito dal 38 barrato mentre attraversava via dei Mille per andare a comprare il latte scremato che gli aveva chiesto sua nonna, restò incosciente per quasi dieci giorni e al risveglio non ricordava più nemmeno il suo nome. «Leo, Leo!» lo chiamavano i nonni, ma Leo non si girava, per i primi mesi andò sempre in questo modo, poi si abituò a quel nome e iniziò a voltarsi. Alcuni si illusero che gli fosse tornata la memoria, ma non era così, era solo l’abitudine. L’abitudine illudeva gli altri. Ma Leo sapeva benissimo, quando si guardava allo specchio, di non essere nessuno.


freccia sinistrafreccia


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