Stazione Termini
di Boris Berlioz

Tacchi, ciabatte, zoccoli, ballerine, décolleté, sandali e stivali, piedi nudi – non sono la sola – macchie di un giorno come un altro. Si sfiorano veloci, evitandosi l’odore, fosse mai una malattia. Un terso grigio cala sulla notte il suo sipario che si riapre per dare spazio all’incerto ingresso della luce del mattino. Sono le sei e venti di un 29 luglio, data infausta, secondo alcuni. La città è tranquilla, io ho già fatto colazione. Poi è successo qualcosa. Sono caduta, faccia al suolo, “il treno Altra Velocità 197quattro1quattroquattroquattro in partenza per Pami…” non la tua voce, almeno… Decine di corpi muovono arti, avanti e indietro, una dolce cantilena. La stazione dei treni è un circo a quest’ora della mattina. L’ho sempre pensato. Un bastone, ancora una volta. Forse sto perdendo i sensi.
Polvere di me. Mi sgretolo nell’incertezza di un mare di voci, tante, un concerto mai ascoltato. Scurovestiti che si affannano, mani si stringono vigorose, occhi seri, guardano tutti dalla stessa parte. È un funerale. La voce di un parroco, mi pare quasi di conoscerla, si parla di me. Cravatte, elisir di benessere d’annata, una musica triste si leva, sollevando tutti da un peso. Parla il sindaco – una morte tragica ma la città è sicura, si tratta di un caso isolato – Andrea sarà il nostro angelo – sussurra, tenendo a debita distanza le orecchie del parroco, qualche progressista d’occasione.
Sono uno dei vostri “mai più”.
Non ho mai avuto paura della solitudine. È il terrore di non valere piuttosto, di trovarsi sola davanti a un piatto di pasta, una di quelle sere di primavera in cui ogni lacrima sembra inaccettabile. E valere per non valere ho deciso di vendere la mia anima, e non solo, ai paffuti frequentanti questo incessante mercato. Seduta su una mattonella conosciuta a miliardi di suole, comparsa statica e involontaria di sempre nuove insegne pubblicitarie, stordita dalla vostra mendace quotidianetà, sono io a spaventare i vostri bambini e, a volte, allietare le ore di qualche loro genitore. So come accontentarvi tutti, chi cerca un soffio di amore prima di compiere un delitto, chi una meccanica che renda meno doloroso il recente ricordo di una moglie lasciata davanti alla tv. Certo, il mio aspetto, la mia salute, fisica e mentale, non aiutano a sopravvivere. Ma in fondo valgo qualcosa, almeno per coloro che hanno troppa fretta per soffermarsi su altro.
Vivo alla stazione per esorcizzare il cambiamento. Ho sempre odiato le partenze e ogni minima trasformazione dell’ambiente circostante. Bizzarro, si potrebbe pensare, sentire queste parole da chi ha voluto cambiare quello che la natura le ha dato. Eppure ogni giorno guardo la folla che parte, solitudini che in un treno trovano temporaneo sollievo, pendolari senza bussola alla ricerca di un tram, partenze, arrivi, arrivi, partenze.
Io sto. Stavo.
Ascolto commossa la melodica cantilena che dirige i vostri movimenti e riempie di meravigliosa stabilità la mia vita. Ho provato solo una volta, negli ultimi vent’anni – un treno per una città lontana – seguendo il filo di qualcosa che non conoscevo, ad abbandonare la voce del mio amore. “Il treno Citynotte per… è in partenza dal binario 7”. Le ascoltai piangendo le tue parole, quella mattina. E ti abbandonai.
Un fischio sordo, lungo uno sbadiglio, mi avvisò dell’imminente fermata del treno. La città, rossiccia e decadente, appoggiata su violenti dirupi, pareva chiedere ospitalità a una natura poco benevola. Scesi, vomitata in una folla di viandanti, mercanti d’ogni risma, inebetita da una luce tutta diversa cercai quel portone, un indirizzo segnato a matita. Avevo già perso troppo tempo. Il cuore batteva come un martello, non ero più abituata. Un’ora era abbastanza per respirare un po’ di aria da regalargli.
Era successo la mattina del treno. Un uomo dall’accento familiare e uno spento sguardo sudamericano si era seduto accanto a me. Un caffè e i soliti dolori della notte: per una sigaretta si accetta questo e altro. Dopo un paio di invezioni di cortesia trascorremmo un buon quarto d’ora a raccapricciare qualche vecchietto in piedi di buon’ora. Un trans e un alcolizzato sbattuti a terra alle sei del mattino a conversare del più e del meno. Poi quel nome. In un lucido biascichio di parole: un nome, poi una città e un indirizzo. “Chi sei? Come lo conosci?”. Una risata rossa soffiata nei vapori dell’alcol, il trans urla, si alza e corre al binario, scalzo, sporca, corre nello stupore assonnato dei pendolari, finché l’eco di quella visione prende forma nella tua voce: “Il treno ….”. Prendo posto tra i respiri schifati della vostra ipocrisia, sprezzante. Il treno parte.
A me sembrava impossibile che tu fossi finito a vivere là, non ti ci vedevo a barattare il tuo sorriso a tre denti gialli con un po’ di monotona sopravvivenza in una città a forma di gabbia- uno scambio che conviene quasi a tutti, non a te. Ogni angolo una vetrina scintillante, signori calvi in abbigliamento elegante invitano a entrare negli hotel, qualche straniero, malsopportato, offre scarti di città sotto forma di statue, ombrelli e birre scadenti. Io cammino veloce, penso che era tanto, tantissimo tempo che non camminavo così, e mi vedo scorrere sugli specchi di quelle teche colme di mercanzia. Ho un aspetto decisamente ridicolo.
Ti ho conosciuto una sera di ottobre. Eri sceso da un treno, uno di quei treni per ricchi – tu non ne avevi affatto l’aspetto. Camminavi piano. Investito da uomini d’affari affannosamente in cerca di un appuntamento, scartato da donne troppo distratte, ondeggiavi lento verso ciò che – lo avrei imparato – definivi destino. Quando sei rimasto l’ultimo sulla banchina, hai posato lo sguardo su di me. Io vivevo alla stazione da pochi mesi, ero ancora convinta che ne sarebbero passati un’altra manciata. Ti sei avvicinato, ti sei seduto, io non ti ho mai guardato in faccia, mi sembrava impossibile. Mi lasciasti un grosso zaino e qualche ora di attesa. Tornasti nel pieno della notte, un volto differente, le cicatrici di una scelta. Ti addormentasti al mio fianco, senza dire una parola, e così trascorse un inverno.
Una mattina mi tagliasti la lingua. Te ne sei andato come sei arrivato. Sono rimasta sola, con la tua valigia, sola ad ascoltare l’altoparlante, ad aspettare che la vita scorresse del tutto, a borbottare località, orari, avvertenze, scanditi ritmicamente dai passi di centinaia di persone. Ogni tanto una pettorina, hanno provato a portarmi in un manicomio, in un ospedale, in una casa di cura. Mi hanno raccontato che eri morto, che una locomotiva ruggente ti aveva spezzato, che eri salito su un vagone e non eri più sceso, che non avrei più saputo niente di te. Ho passato mesi a cercare quell’odore desiderato nei vagabondaggi di un’anima infelice, ad ascoltare quei passi, a sfiorarmi i capelli come facevi tu.
Non sapevo cosa ti avrei detto, non sapevo neanche se ti avrei trovato. Chissà quanto eri cambiato. Quel tempo infinito, quando è il dolore l’unità di misura si fa fatica a calcolare. Arrivai di fronte a un’inferriata bassa, l’ingresso di uno stretto cortile dove due bambini erano impegnati a costruire un mondo di avventure. Uno dei piccoli, il tuo sorriso in un taglio di occhi orientale, si accorse di me, a giudicare dal balzo terrorizzato con cui guadagnò l’uscio di casa – il mio cuore batte all’impazzata, devo scappare – troppo tardi, in un attimo un uomo elegante si affacciò alla porta – quegli anni ti avevano appena accarezzato il volto.
“Buongiorno, posso aiutarla in qualche modo?” Il trans esita, una lacrima le solca una guancia. Balbettai qualcosa, mi hai dato qualche spicciolo e sono scappata via.
Quando il primo legno mi ha fracassato una mano ho visto solo degli stivali neri. Non li ho guardati i vostri volti. Se l’avessi fatto non vi avrei riconosciuto. Un colletto bianco, quello di un prete, una testa rasata, una fascia tricolore, mani da picchiatore, voci insicure, lo stesso flusso indistinto che mi scansa in vita, mi incensa da morta. Io sto. Mentre mi aprite il cranio la voce dell’altoparlante prende forma, ti sento scandire le danze di passanti che non mi vedono neanche oggi. “È severamente vietato oltrepassare la linea gialla…”