L’indaco sotto i piedi
di Donatello Cirone

Cercava l’indaco quella mattina, lo cercava sul corrimano, sulle panchine di pietra, sull’asfalto freddo. Lo cercava mentre, lentamente, si portava alla bocca la solita Kinder délice.
Tutte le mattine, con lo sguardo perso verso qualcosa che nessuno poteva afferrare, mordicchiava la prima metà di quella brioche con una flemma innaturale. Labbra sottilissime nascondevano a tutti i suoi incisivi piccoli e marci. Quella prima metà restava fra le sue mani per almeno una decina di minuti, per quasi tutto il tragitto del bus, il 33, poi, come se presa da un impeto demoniaco, con un gesto fulmineo si ficcava l’altra metà in bocca spingendola in gola con forza senza masticare, senza che i denti ne toccassero la copertura nera. Ingoiava quella metà in pochissime frazioni di secondi, il tempo di un sussulto, di una foglia di quercia recisa dal vento in cerca di terra, il tempo di due mani innamorate che si sfiorano, preoccupate dal peccato. Ingurgitava quel pezzo dolce e lo depositava nel fondo del suo corpo debole, smunto.
Aveva i capelli radi, un cerchietto a pochi centimetri dall’attaccatura dei capelli la scaraventava nel fosso degli incompresi, in quella cerchia di individui che appaiano indifesi, sgraziati. Si muoveva nel mondo incerta, non appoggiava mai i talloni a terra, non sorrideva, non guardava il sole. Cercava l’indaco quella mattina, lo cercava dietro la sua scrivania, fra le dispense del corso di aggiornamento: “Peccati, sodomie e virtù della P.A.”. Cercava l’indaco fra le pratiche scolorite, custodite nell’armadietto del direttore, fra un permesso premio e una lettera d’amore. Lo cercava fra una pausa e una firma, fra un pensiero di morte e una preoccupazione giunta da lontano.
Da anni mangiava sempre allo stesso modo la sua Kinder délice e consumava la sua vita in quell’ufficio al piano terra della Palazzina 96BiX, ed erano anni che passava il sabato in un allevamento di pavoni. Non faceva nulla, si sedeva di fronte a loro e li guardava, interminabilmente li guardava. Senza mai parlare, senza mai toccarli. Non aveva mai tentato nemmeno di accarezzarli. Da fuori li guardava e basta. Si distraeva nel farlo solo quando Anica, come tutti i giorni, entrava nel recinto per spargere il mangime. Loro si agitavano per un paio di minuti e poi tornavano a vivere la loro vita lenta, a portarsi addosso quelle lunghe piume colorate con disinvoltura.
Lei se ne stava davanti a loro a contemplarli, in silenzio, poi ogni volta, prima di andare via, si avvicinava al cancello, si inginocchiava, si aggrappava alla rete, si faceva assorbire dal terreno bagnato, rilassava i muscoli, abbassava gli occhi e piangeva.
L’indaco alle sue spalle illuminava il recinto.