L’arte della fuga
di Mara Abbafati

Nella stanza del clavicembalo lo spazio che restava era poco e i parenti vestiti di nero se neĀ stavano appoggiati alle pareti. Zio Osvaldo teneva la pipa spenta stretta tra le labbra eĀ digrignava i denti, mentre sua moglie Elvira mangiava le polpette al sugo che si era portata inĀ un contenitore di plastica e si sbrodolava sulla gonna tesa dalle cosce strizzate nelle calzeĀ contenitive color carne. Io me ne stavo nella stanza del solfeggio e guardavo le loro ombreĀ attraverso il vetro smerigliato della porta.
Nella vetrinetta, accanto al tavolo ovale di noce, cāerano i gatti di porcellana che mostravano leĀ code, e la collezione di campanellini dāargento. Dalla finestra il sibilo del vento sembrava ilĀ suono di un trombone a coulisse e faceva vibrare il vetro sottile. Cāerano ventisette gatti eĀ trentacinque campanellini, finito di contarli non sapevo più cosa fare, si avvicinava il momento inĀ cui avrebbero chiuso la bara e saremmo dovuti andare tutti al funerale. Io avevo paura. DellaĀ chiesa e dellāincenso. Lo avevo detto a mia madre che non volevo andarci ma questa opzioneĀ non era contemplata, mi disse lei quella mattina, mentre si allacciava il fiocco della camicetta diĀ seta blu di Prussia.
Mi nascosi sotto al tavolo, accucciato per terra con le ginocchia strette al petto Ā«Voglio sparire, voglio sparire, voglio sparireĀ» sussurravo guardando il mio riflesso sulla vetrinetta. Di lĆ iniziò il trambusto, stavano portando la bara fuori dal portone, sentii il cigolio del paletto aĀ leva che non veniva toccato da chissĆ quanto tempo e le voci dei becchini che si davanoĀ indicazioni per districarsi sul pianerottolo, e mentre tutti attendevano la fine dellāoperazioneĀ stipati nella stanza del clavicembalo, io vidi pian piano sparire il mio riflesso. Sparii davvero, nonĀ solo fisicamente ma anche dai ricordi di mia madre e degli altri parenti, perchĆ© quando tuttiĀ corsero fuori chiudendo in fretta il portone per raggiungere il corteo funebre nessuno venne aĀ cercarmi.