La caffetteria
di Donatello Cirone

Strati di polvere ammantavano tutti i mobili e il tavolo e le sedie, il letto, la credenza, gli armadi, la cucina, la cintura che pochi anni prima aveva segnato la schiena e le cosce di Ginevra. Tutto era coperto dalla polvere e dal tempo, dalla noia. Il silenzio, prima desiderato, adesso era un grande martello che batteva come il pendolo di un cucù rotto sul cranio vuoto di Mario che dondolava in mezzo alla stanza. Le serrande abbassate rimandavano i raggi al mittente, fuori la vita scorreva con la stessa monotonia di qualche anno prima, quando con lui in stanza respirava anche Ginevra.
La luce spenta lasciava quel pezzo di mondo al silenzio e lo restituiva alle tenebre.
Al numero 4 di via Gravidi Mariti, Chiara si accarezzava il ventre tondeggiante. Da ormai quasi tre mesi non riusciva più a vedersi il pube e i suoi peli, poteva solo accarezzarli, passarci la mano, sentirli morbidi. Ogni tanto si guardava allo specchio, non si piaceva il lunedì, il mercoledì si amava, il sabato era triste, la domenica, forse, felice. Lievitava il suo corpo e con esso anche i suoi squilibri ormonali. Cresceva, lentamente cresceva un altro corpo dentro al suo, una relazione millenaria che Chiara faceva fatica a vivere. Dal primo test fino al primo sorriso di Ferdinando subito dopo averglielo detto. Si era chiesta infinite volte se fosse più giusto abortire, farla finita, non diventare mamma. Non aveva dormito tante notti e per altrettante aveva fatto l’amore senza chiedersi il perché, riprendeva solo ciò che tutte le altre donne prima di lei avevano barattato con la morale e l’etica, non aveva mai buttato via un’occasione di amore, mai un’esperienza che le avrebbe portato felicità, aveva la sua vita, le sue scelte, la sua essenza. Sceglieva lei dove dormire e se dormire, se amare solo per una notte o per due. Sceglieva lei se amare, e chi. Sceglieva lei se concedersi e cosa concedere: carezze, tazze colme d’amore o semplicemente niente.
Mario dondolava appeso al lampadario. Dondolava per effetto delle correnti e degli spifferi, un corpo appeso che, dondolava in una casa vuota, dove Ginevra qualche anno prima aveva pianto, mai riso. Aveva urlato, mai cantato. Ginevra era stata lì e adesso non dondolava ma sorrideva lontano, lontano da quella polvere, da quelle mani e da quella cintura di pelle marrone.
Chiara aveva conosciuto Ferdinando in una caffetteria, di mattina, davanti a un caffè schifoso e un cornetto integrale. Si erano guardati, sfiorati ed erano ritornati al loro andare, non sapevano, in quel momento, che tutta la loro vita da quel caffè in poi si sarebbe stravolta, cambiata per sempre. Si rividero pure l’indomani, stesse ordinazioni, stesso angolo del bancone. Quelle colazioni andarono avanti per un paio di settimane, alla fine per quello strano senso di abitudine mista a una certa antica educazione si salutarono. Bastò un – Buongiorno caro! – pronunciato da Chiara a cento denti per stendere Ferdinando e mandarlo lontano da quella caffetteria troppo piena, trasportarlo prima sulle nuvole poi a cavallo dei suoi sogni. Chiara era bellissima quella mattina e sarebbe rimasta così fino alla dentiera. Sorrideva, piena di vita e amore per il mondo, chiunque poteva percepirlo. Il flusso della sua positività invadeva corpi tristi e indaffarati a raccontarsi disgrazie e pene. Ferdinando rimase abbagliato dalla sua luce, abbacinato da quel sorriso vivo e fresco che in mezzo a tutti quei morti metropolitani brillava ancora di più. Sognava di abbracciarla e di baciarla, di trovarla nuda nei suoi sogni, bere direttamente dalla fonte la sua acqua miracolosa, stringerla a sé. Sognava e non aveva il coraggio di fare altro, ma solo di rispondere tutto tremante: – Buongiorno anche a lei!-.
Mario non dondolava più. Era stato trovato. Le sue ossa erano finite tumulate sotto una croce senza nome. Ginevra continuava a sorridere lontana dalla cintura di pelle marrone e dalla fibbia dorata.
Ferdinando e Chiara aggiunsero alle colazioni, pranzi e cene romantiche, passeggiate e nottate intere a parlare e ad amarsi delicatamente, aggiunsero anche un concepimento, tanti sogni da vivere e tanti da infrangere.
Pochi anni prima in quella stessa caffetteria Ginevra incontrò per la prima volta Antonio, aveva un volto delicato, macchiato dalla tristezza, una impercettibile linea di sofferenza gli marcava le palpebre. Appena lo vide si rese conto che era pronta. Ginevra era pronta a rivivere, ad amare ancora, senza cintura e senza fibbia, era pronta per immergersi ancora dentro alla vita. Riemergere, dopo tanta apnea, alla luce. Si erano innamorati davanti a quello stesso bancone, e anche loro avevano fatto seguire a quell’incontro pranzi e cene a lume di candela, serate al cinema e a cena a casa d’amici proprio come avevano fatto Ferdinando e Chiara.
Vivevano semplicemente. Si amavano, e la loro vita scorreva come un grande fiume artico, i giorni uno dietro l’altro si rincorrevano come ghepardi in amore, tutto era incredibilmente bello: la casa nuova, i tappeti, la credenza, tutto luccicava, nemmeno un minuscolo granellino di polvere adornava a morte i loro mobili, le loro sedie. Nessuna cintura di pelle marrone con la fibbia d’oro sfregiava il corpo morbido di Ginevra, bianco come latte d’asina appena munto. Brillavano gli occhi di Ginevra pieni d’amore.
La luna era sorta.
Chiara strillava e si dilatava, spingeva e piangeva, in quello stesso momento Ginevra sognava, un rivolo di saliva le disegnava una guancia, un minuscolo filo che cadeva sul cuscino rosso, lontano la polvere pesante come pece custodiva il suo dolore passato, nascondeva al mondo il ricordo delle cinghiate sulla sua pelle, la fibbia d’oro e lo stemma impresso a sangue sulle sue cosce, ovattava il rumore sordo delle sue lacrime e dei suoi singhiozzi.
Un sorriso accennato di Antonio, una carezza a interrompere quel rivolo, ad asciugarle il viso pieno di luce, un bacio umido, due occhi che si aprono, lontano un vagito.
Il sole era sorto, la caffetteria riaperta.