Cicale notturne
di Donatello Cirone

Le tegole una dietro l’altra, bagnate da qualche goccia di pioggia, brillavano. Il comignolo assente era scappato al mare. Sopra la sagoma di un’antenna trasparente un Senatore, senza voglia di urlare, fissava le sue orecchie. Quella casa era caduta dal cielo come un chicco di grandine. Gettata tra gli alberi secchi. Costruita da mattoni fragili non crollava per noia.
Igor si era lasciato morire lì, su quel prato incolto, in compagnia di lumache e grilli.
Era arrivato un paio d’anni prima in quella casa, in una gabbietta color nocciola, le zampe grosse e forti, accompagnato da una signora distinta, in tailleur, i capelli biondi legati con un fermaglio nero come il vestito. Labbra sottili. L’accento teutonico fortissimo, in una mano la gabbietta e in un’altra il pedigree. Un pastore tedesco di Bonn: Igor appena uscí dalla gabbia ruppe il protocollo crucco che voleva il cagnolino seduto e composto e cavalcando il cliché italico si lanció a tuffo fra l’erba alta a rincorrere Hydra la gatta di Maria che era morta almeno due anni prima. La gran Dama si scusò, prese l’assegno e un pezzo di fegato di Graziano e andò via, si lasciò alle spalle un corridoio di polvere e dietro una casa, Igor, Maria che saltava, Graziano seduto su una sedia di paglia, gli alberi secchi, le ossa di Hydra, l’antenna trasparente e la noia. Quella gran Signora che indossava il tailleur nero e i capelli raccolti e il pizzo che le bardava le cosce forti, ultimo ricordo di un passato giovanile fra le ragazze della campestre, se ne andò proprio come era arrivata, sarebbe tornata nella sua sempreospitale terra, avrebbe dormito nel suo letto, avrebbe mangiato il suo pane, avrebbe raccolto le molliche sulla sua tavola e le avrebbe regalate, generosa, ai suoi vicini che abitavano nello scantinato, ci avrebbero sfamato la fenice che custodivano gelosamente.
Igor correva, abbaiava, ringhiava, si era adattato al costume, Maria continuava a saltare, Giovanni il postino ogni tanto passava, salutava tutti e accarezzava Igor che gli leccava le mani, Graziano gli sorrideva, dalla finestra che dava sul cortile Lucia gli mandava baci.
La casa sempre più fragile ogni tanto scricchiolava, come le ossa di Graziano, Igor gli correva intorno, gli dava forza, lo teneva in vita, come non avrebbe fatto un triplo ciclo di chemio. Si trasformava Graziano come un baco in attesa e Igor faceva lo stesso, mangiava una tripla razione di croccantini eppure si svuotava come un grosso budello di salsiccia spaccato da una pressa industriale.
Andavano su e giù per la stradina che portava dalla casina a un fienile abbandonato a qualche centinaio di metri dal letto e dalle cannule e dall’armadietto delle medicine e dalle lacrime di parenti e amici, mai versate. Correvano nella loro mente Igor e Graziano sugli altopiani etiopi, a fatica arrivava a toccare il muro del fienile e poi su piano piano verso casa. Igor seguendo sempre il cliché – familista amorale – tracciava ogni passo di Graziano, che con il passare dei giorni diventava sempre più debole, sempre meno attaccato al suolo di questo creato.
Graziano se ne andò proprio come era arrivato, proprio come era arrivata la signora con il tailleur e il fermaglio nero, senza troppi lamenti crollò dalla sua sedia di paglia e la sua testa, cadendo, fece lo stesso rumore di una boccia di ferro scaraventata con violenza sulla sabbia. Igor latrò tutta la notte la sua disperazione e cercò a suo modo di riportare in vita Graziano.
Le tegole brillavano. Il comignolo si era risposato. Maria non saltò mai più e Lucia si tenne i baci solo per lei.
Igor si lasciò morire lì, su quel prato incolto, in compagnia di lumache e grilli.