Le derivate
di Mara Abbafati

Augusto aveva un occhio di vetro, il destro. Quando prendeva l’ascensore per prima cosa apriva la porta esterna, poi le due ante di legno, quindi si voltava di spalle ed entrava camminando all’indietro. Dopo aver chiuso le porte spingeva il bottone del quarto piano, l’ultimo, e restava immobile fino all’arrivo. La signora Mercalli, la prima volta che andai a ripetizione di matematica da lei, mi disse che non dovevo aver paura di Augusto se l’avessi incontrato nell’ascensore. Io non avevo paura, però ogni volta mi chiedeva «Ce l’hai una sigaretta?».
Glielo dissi almeno ottanta volte che non fumavo.
Un giorno l’ascensore si bloccò tra il secondo e il terzo piano e Augusto mi raccontò di come perse l’occhio. Era ferragosto, lui aveva da poco compiuto sette anni, si trovava nella casa dei nonni in campagna e andava in bicicletta quando a un tratto il cane lupo dei vicini saltò il recinto e si mise a corrergli dietro: iniziò a pedalare fortissimo, la bici andava a zig zag sul terreno accidentato, superò la stalla, il cane gli era dietro, lui si abbassò per essere più aerodinamico e chiuse gli occhi, pensava solo a pedalare. «Andavo velocissimo, non vedevo niente e finii addosso al pollaio, la recinzione si sradicò e mi ritrovai avvolto nella rete di fil di ferro con la bici addosso».
«Te lo cavasti così l’occhio?» chiesi io.
«No, ero a terra impigliato nella rete, aprii gli occhi e Don Rodrigo mi beccò».
«Chi è Don Rodrigo?»
«Il gallo di nonna».
L’ascensore si aprì, davanti c’era la signora Mercalli con il volto pallido, agitatissima, che parlava al telefono con i vigili del fuoco. Ci chiese come stavamo e Augusto le disse: «Ce l’hai una sigaretta?».
Quel giorno la signora Mercalli mi spiegò le derivate. Eravamo al tavolo della cucina e per quanto fosse pulita e ci fosse la finestra leggermente aperta si sentiva ancora odore di fettina panata. Non riuscivo a immaginare la signora Mercalli che mangiava le fettine panate.
Quando scesi nel cortile c’era Augusto che girava intorno al palazzo, era sempre lì quando finivo la lezione, ma in tutti quei mesi non lo vidi mai fumare.
Era il ventinove maggio, faceva un caldo infernale, la scuola stava per finire e io dovevo essere interrogato sulle derivate prima della fine dell’anno, quel giorno tornai dalla signora Mercalli per un ripasso. Quando suonai al citofono mi rispose Augusto. Non capii. Arrivato davanti alla porta la trovai aperta, sentivo delle voci, entrai e vidi due donne sulla sessantina che stavano in piedi nell’ingresso. Augusto mi prese per un braccio «Vieni, ti devo far vedere una cosa».
«Augusto, non posso, devo fare lezione adesso».
«No, vieni a casa mia, devo farti vedere una cosa importante».
Sull’altro lato del pianerottolo c’era la casa di Augusto, entrammo: era pulitissima, nell’ingresso c’era una pianta alta fino al soffitto, percorremmo il corridoio dove in fila lungo il muro c’erano almeno dieci gatti di plastica ed entrammo nell’ultima porta in fondo. La stanza era vuota, c’era solo un enorme castello fatto di sigarette, «Guarda!» disse lui.
«A questo ti servivano le sigarette?»
«Sì».
«È bellissimo, davvero. Adesso però vado a lezione».
«No, lei è morta».
Rimasi nella stanza del castello a fissare fuori dalla finestra per diversi minuti. Augusto Mercalli toccò quasi tutte le sigarette che formavano il castello controllando che fossero perfettamente allineate, poi uscì dalla stanza e io lo seguii per andarmene. Sul pianerottolo decisi di scendere per le scale e arrivato al terzo piano sentii la sua voce «Torni domani a vedere il castello?». Risposi di sì.