I racconti del bar
di Francesco Faraci

L’inverno è arrivato all’improvviso. – Finalmente! – esclama Gaetano seduto al tavolo accanto con in mano il bicchiere di bianco Sarti ancora intonso. -Ti mancava così tanto?- dico io.
-Eccome se mi mancava, non ne potevo più del caldo- fa lui assaggiando a fior di labbra la brodaglia incolore sul fondo del bicchiere. Arriccia le labbra, sgrana gli occhi – A noi- urla e in un attimo fa fuori il liquido che prorompente cola agli angoli della bocca macchiandogli la camicia a scacchi rossa e nera. In effetti la lunga coda dell’estate si è protratta fino a ieri, alcuni giorni addirittura ha spinto flotte di ragazzi a marinare la scuola e raggiungere la spiaggia per dar sfogo ai loro giovani e ancora selvaggi istinti, saltando a piedi pari l’autunno arrivando fino ad oggi. Il cielo fuori è grigio, e il grigio uniforma tutto, annulla ogni differenza e bisogna rifugiarsi in un mondo colorato per riconoscere le cose, chiamarle ancora con il loro nome. Gaetano sibila una bestemmia da svegliare i Santi in paradiso, poi tossisce, tira fuori dal pacchetto una Marlboro, la batte sul tavolo, se la rigira tra le mani – Gianni, famminninavutru [1] – urlando verso il bancone dove Gianni è sprofondato sotto una montagna di tazzine. -Ma su l’otturimatina- gli dice di rimando – tivòmmriacari?[2].
-Un tipreoccupari- fa Gaetano sorridendo – Tu pensa a tiaca a mia ci penso io-[3]. Accende la sigaretta, è inarrestabile:
– Sai cosa fa un passero di trenta chili su un ramo?- mi chiede.
– No – dico – non lo so.
– Manco io – dice scoppiando in una risata che gli scopre la vecchia dentiera ingiallita. Siamo soli, la vita oggi sembra non voler decollare, stagna in una specie di languido abbandono, persino il rintocco della campane della chiesa vicina sembrano diversi, più lente, più gravi. Le strade sono quasi deserte, poco più in là, non moltodistanti da noi, un pugno d’uomini con gli occhi rivolti al cielo – oggi piove- dice uno di loro, gli altri annuiscono, muti.
-Picciò, arricampativi [4]- urla Gaetano
-Tanino zittuti – dicono quasi all’unisono – sulu tu ci manchi [5]-
-Picchìchifici?[6]-
-Porti attasso [7]- sempre in coro.
-Tiè – risponde lui allungando un gran paio di corna. Parte la musica dalle casse posizionate ai quattro lati della struttura coperta da un tendone color cremisi la cui unica finestra, per giunta sporca di anni e anni di frittura, affaccia su una strada del mercato. Passa una donna africana mano a mano con sua figlia, lo sguardo vispo, gli occhi grandi e pieni di vita, cammina svelta quasi danzando, le treccine tese in testa coi fili arrotolati tutti colorati, è un attimo. Non le vedo già più, le loro sagome sparite oltre quella piccola fessura che guarda su quel mondo, piccolo eppure così grande. Guardo il mio caffè ancora fumante, mentre afferro la tazzina fra il pollice e l’indice si sente il crash di un bicchiere: -Auguri!- urla Gaetano – Grazie- rispondono dal bancone, qui si usa così, quando si rompe un piatto oppure un bicchiere è come se morisse e gli si augura il meglio.
“Senza ‘e te un ce pozz sta pecchè tu m’appartiene, pecchè me piaci tu”
La musica prende il sopravvento, rimbalza sulle pareti di plastica, è qualcosa in più di un sottofondo che dovrebbe, per definizione, accompagnare l’avventore nei suoi dolci deliqui, e qualcosa in meno, invece, di un concerto all’interno di uno stadio.
-Ti piace ah?- chiede Gaetano sbattendo il suo gomito contro la mia spalla
-Da morire – dico io e per non dispiacerlo mi limito a dondolare la testa seguendo il ritmo, infatti sorride compiaciuto.
-Ah, dice, Gianni Celeste, che ricordi – sai – dice – con questa canzone mia moglie si è innamorata di me-.
-Davvero? – dico ingenuamente- non sapevo che fossi sposato-
-Ceeerto! da dieci anni anni ormai, guarda- così facendo mi mostra l’anulare con dentro la fede dorata.
-Te lo fai un bicchierino? – mi chiede –amunì [8], brindiamo.
-Non posso Gaetà, l’alcool mi fa male, poi di prima mattina – so già che non potrò rifiutare. Il suo sguardo infatti si tramuta, spalanca gli occhi e la bocca come se avessi diseredato con una parola lui e la sua generazione: – Ma quando mai un bicchiere ha fatto male – urla con la sua voce da megafono – Gianni, due per favore-
-Subito!- si sente alle nostre spalle. Sono spacciato, la situazione sta degenerando.
-Ma no- dico- come se avessi accettato, grazie, sul serio- provo a schernirmi ma ormai i giochi sono fatti. Arriva il cameriere con i due cicchetti, Gaetano li prende entrambi, me ne porge uno senza troppi complimenti – tutto d’un sorso- dice. -Aspetta- dico ma non ho il tempo. Si alza solennemente in piedi e io con lui, alziamo i calici in cielo – Alla faccia di chi ci vuole male!- e subito vuota il suo bicchiere, io il mio. Arriva come una scudisciata nella gola, scende nell’esofago con la forza di un vulcano in eruzione, trattengo il respiro. Gaetano fa un rutto d’approvazione più simile a una porta sbattuta, crolliamo di nuovo sulle sedie, la situazione ritorna sotto controllo.
-Tu sei sposato?- mi chiede da un tavolo all’altro
-No- dico- non ancora-
-E che ci aspetti?- fa lui stupito
-Non è ancora il momento-
Oh Gianni- dice rivolgendosi al barista alle sue spalle – t’immagini? nonè ancora sposato-. Poi tornando verso di me – Ma quanti anni hai?- trentadue- rispondo. Si volta di nuovo – a trentadue anni!!!-
-Ma lascialo in pace, fa bene fa, il matrimonio è una camurria [9]- dice ridendo.
-Oh non capite niente- protesta – ma scusa, come fai a sapere quando è il momento?- chiede -le cose bisogna farle, non chiedersele- continua – se te le chiedi non le farai mai, troverai sempre un motivo buono per rimandare-. Poi si avvicina al mio orecchio come se stesse per farmi una rivelazione: – Sei innamorato, te lo leggo negli occhi – sussurra – vai dalla tua ragazza e chiedile di sposarti, se vuoi ti presto la cassetta di Gianni Celeste, con me ha funzionato, va alla grande- dice e tutti e due scoppiamo in una risata.
-Ci penserò- gli dico – grazie per il consiglio
-Tutto pagato mio- risponde ed è il suo modo per dirmi che i suoi consigli sono spassionati e gratuiti. Torna in silenzio al suo tavolo, prende un giornale da una sedia e inizia a sfogliarlo, l’atmosfera è di nuovo calma. Finisco il caffè e ne ordino un altro, accendo una sigaretta e tiro su una vorace boccata di fumo. Guardo Gaetano senza che se accorga; scorre il dito sulle righe di giornale per non perdere il segno, le sue labbra si muovono lentamente al ritmo delle parole, non so nulla di lui ma non è necessario, basta la sua invadente simpatia a rendermelo amico. Per tutti è Tanino ed è nato qui, nel quartiere dove io da straniero sono venuto a vivere e dove subito mi sono sentito a casa, contro il parere di tutti che mi dicevano di fare attenzione perché credevano e credono ancora che sia pericoloso.
-Il caffè- arriva Gianni, mi guarda sorridente mentre porge la seconda tazzina sul tavolo sparso di fogli.
-Che scrivi?- mi chiede
-é un segreto- dico strizzando l’occhio. Non chiede altro, raccoglie la tazzina vacante e se ne va.
Il mercato ha preso vita. E’ un crogiolo di urla, la gente sciama su e giù come un branco di vespe che ha perso la rotta, pesce e frutta fresca sono già sui banchi prima deserti, ognuno fa sfoggio delle proprie meraviglie. Anche il traffico di macchine poco lontano, coi sui clacson strombazzanti e la gente che tira fuori la testa dal finestrino urlando di muoversi a quella davanti non da fastidio. Si alza pure Tanino – segna- dice a Gianni-che dopo passo-. Si avvicina a me, mi cinge alle spalle – Pensaci – mi dice – sposala – domani ti porto la canzone. Lo guardo uscire dalla porta, fischiettando con le mani in tasca.
Note:
- Gianni fammene un altro
- Sono le otto del mattino hai intenzione di ubriacarti?
- Non ti preoccupare, pensa per te che per me ci penso io
- Ragazzi venite
- Tanino stai zitto, manca solo la tua
- Perché cosa ho fatto?
- Porti sfiga
- Forza
- Seccatura