La ragazza del 65
di Donatello Cirone

Il bus arrivava sempre con un ritardo che oscillava fra i 3 e i 121 minuti, le scuse erano tante: il traffico, i lavori mai finiti, le vecchie sulle strisce da dover per forza scansare, i ciclisti che invadevano le corsie mentre mangiavano bistecche sul manubrio, i bimbi che giocavano a palla. La verità tutti la conoscevano, un po’ si incentivava il trasposto privato, un po’ era semplice inefficienza, fatto sta che Lorenzo aspettava sempre: un bus, un vero lavoro, un amore, l’abbraccio di un amico.
Regalava ormai quasi un’ora al trasporto pubblico urbano e non ci poteva fare niente, come per tutto il resto.
Sveglia e caffè, cesso, doccia, denti, vestiti, un altro goccio di caffè, poi borsa di finta pelle, si vergognava a portarla e non perché fosse di finta pelle, si vergogna proprio a portare quella borsa, sembrava facesse il verso a tutti quegli omini vestiti di bianco, incravattati e fintamente profumati che si accalcavano sui marciapiedi poco illuminati tutti pronti a fare lo sconto, se la portava dietro quella borsa come se fosse il simbolo del suo fallimento, della negazione della vita, della felicità. Usciva presto Lorenzo, alle 6,45 era già fuori pronto ad aspettare il 65 Spiagge – Piazza Dalmati; su quella linea c’era rimasto un arcobaleno di sentimenti ambigui, vaghi, chiari, tenui, marcati. Aleggiava su quello strano mezzo un senso di irresolutezza, di insensato. Tutto era insensato, era insensato per quei ragazzini andare a scuola, tanto sarebbero finiti a fare qualcosa di simile a quello che facevano i padri: manovali, pulitori di muco, aiuto porta giornali. Era insensato per l’autista svegliarsi così presto, era insensato correre a lavoro per quel gruppo di donne andine, sparse per la città come sale da cerimonia a lustrare, spolverare case e letti di famiglie troppo impegnate per chiamarle per nome, era insensato tutto. Era insensato quello che era accaduto, erano insensati tutti quegli addii, tutti quei tappeti macchiati di sangue, erano insensate le note dei kalashnikov mischiate alle urla, alla musica, al terrore. Era insensato il rumore della morte in un venerdì come tanti, era insensato tutto quel silenzio forzato, insensate le parole di guerra, le minacce. Era insensato quello che accadeva altrove, quello che trasaliva dalle Alpi per arrivare violento e senza preavviso dentro quel bus che non aveva altre pretese che portare ognuno al proprio squallore giornaliero, voleva evitare i rossi, surfare sull’onda verde e metterci il meno possibile, eppure si erano spalancate quelle porte, un vento impetuoso le aveva divelte e tutto era cambiato per sempre. Gli occhi dei più si erano dilatati, ogni hijab che incrociavano andava allontanato, emarginato. Scappare da quel pezzo di stoffa era l’unica vera vitale preoccupazione.
Si era sparso, come olio sul parquet, uno strano senso di paura, diffidenza, di angoscia.
Lorenzo non sapeva come si chiamasse, era troppo timido per avvicinarla e chiederglielo, era troppo bella, eccezionalmente legata al sorriso di Dio e lui come poteva solo pensare di avvicinarsi e parlarle? Dirle che nei suoi occhi ci vedeva il vento caldo del Maghreb, che ci vedeva le orme degli uomini passati disegnate su di una sabbia soffice e mai rovente, che avrebbe dipinto sulle sue labbra lunghi papiri di poesie strappate al deserto, che con lei si sarebbe ricongiunto alla felicità e che le avrebbe sorriso tutte le mattine. Lorenzo non poteva e le accarezzava le gote con il pensiero, il suo sguardo non si posava mai sui suoi occhi cenere, su quella pelle luminosa e colorata come un gioiello di ambra scura nascosto sotto una sorgente d’acqua pura. Lorenzo si alzava e trovava che tutto era insensato, che era inutile andare a lavoro, che prendere 3 euro all’ora era umiliante, uno yuppie arrivato tardi: la camicia, i mocassini comprati in offerta, il pantalone nuovo, il profumo, e quella borsa che era l’oggetto che lo incatenava al fallimento; poi pensava alla ragazza del 65, alle sue dita lunghe, a quei capelli mai visti, a quel suo fare gentile, a quel suo adagiarsi con un’antica delicatezza su quei sedili sudici che al suo tocco brillavano, profumavano, li scrostava da tutto il marciume accumulato negli anni.
Un vento di terrore spirava su tutto e tutti, uno di quelli che mandano a tutta vela i nordici omuncoli verdi, quei venti che gonfiano i piccoli peduncoli in mezzo a gambe di uomini privi di fantasia, che corrono veloci in bocca ai codardi, agli stronzi, ai sobillatori, ai frustati, agli insicuri amatori del proprio riflesso.
Venti usati da governi per giustificare, per smacchiare omissis e firme litografate.
Lorenzo abbracciato da una sinestesia incontrollata sentiva sulla sua lingua il dolore salato della ragazza del 65, la vedeva nei suoi sogni piangere, vedeva come gli altri la guardavano, come guardavano il suo meraviglioso viso raccolto dentro quel suo hijab di colori pastello, come la sua sfumatura, i suoi tratti somatici la legassero a una condanna per un Dio diverso. Ogni sguardo che riceveva era una lama tagliente, rovente. Una locusta zoppa ospite forzato di un formicaio crollato. Avrebbe preso per lei tutto il male, tutti gli sguardi, si sarebbe fatto bucare tutto il corpo per il solo piacere di morire tre volte e tornare a vivere per essere ancora trafitto. L’avrebbe protetta da tutti. Sentiva il metallo dei colpi sotto la lingua, sentiva come l’indifferenza di prima era diventata un lusso, sentiva sotto le sue vene come tutto era cambiato, come gli sguardi di paura si concentravano su di lei, sui suoi amici, sui loro zainetti, come dentro i lori occhi si era depositata una cera appiccicosa.
Il 65 seguiva il suo percorso, la maggior parte dei suoi occupanti si era equamente distribuita fra la testa e la coda del bus, e in mezzo c’era lei: seduta, sola, un fascio luminoso di sguardi era indirizzato verso il suo gracile viso. Lunghe lune sotto gli occhi le disegnavano l’angoscia, le mani una dentro l’altra, lo sguardo triste e basso. Sola. Lasciata in mezzo sola. Tutte le paure del mondo le erano cadute in braccio e non lo sapeva, non sapeva il perché, lei era lì, sola, e non sapeva niente. Lorenzo aveva il cuore trafitto dal dolore, le mani gli sudavano, gli occhi si erano nascosti per non vedersi; gli si avvicinò barcollando, incespicò, quasi cadde su quel seggiolino sporco, riuscì a sedersi. Per la prima volta erano vicini, le due ginocchia si sfiorarono e un brivido millenario gli percorse la schiena: una nuova epoca senza lo zero. Sudava e tremava. Lei era ferma. Gli sguardi di tutti iniziavano a perdere di intensità, non erano più fari ma fuochi fatui, Lorenzo le stava accanto, rinsavì lentamente, le due ginocchia si sfiorarono ancora, pregava un Dio diverso per avere davanti a sé la strada sbarrata, una macchina in panne. Pregava un Dio da aspettare. Aveva bisogno di tempo. Il respiro lentamente ritornava regolare, il polso si indeboliva, le mani si riasciugavano, la voce uscì stridula, ammaccata, buffa: “Ciao, come ti chiami?”
Lei alzò gli occhi, accennò un sorriso, lo guardò: “Amina”.