Il buco
di Mara Abbafati

«Il buco s’è mangiato il gatto!» gridai correndo giù per le scale alle sei del mattino.
«Luca, hai fatto un brutto sogno» disse mio padre appena rientrato dal lavoro – in estate faceva il portiere di notte nella Pensione Kelly per arrotondare.
«No! Il buco s’è mangiato il gatto, papà, per davvero».
Mio padre non volle proprio credermi, eppure era vero. Il buco che c’era dentro l’armadio a muro della mia stanza si era mangiato Gnoccofritto. Era successo più o meno intorno a mezzanotte: io ero da solo a casa con la nonna ma non dormivo perché faceva troppo caldo, stavo sotto al lenzuolo a leggere i fumetti con la torcia, Gnoccofritto era sdraiato ai piedi del letto e russava. A un certo punto mi sono alzato per andare al bagno e mentre tornavo nella mia stanza vidi il gatto che entrava nell’armadio, mi avvicinai per riprenderlo e chiudere l’anta ma non c’era più, l’unico posto dove poteva essere andato era il buco, ma nessuno mi voleva credere. Cercarono di convincermi che quello era solo un buco nel muro, era chiuso e non portava da nessuna parte, ma io non ci ho mai creduto.
Quell’estate la nonna morì, era luglio e non me lo sarei mai aspettato che una cosa simile potesse capitare proprio a luglio. La mattina mi alzai e non c’era il solito odore di caffellatte che saliva su per scale. Io e papà andammo a bussare alla porta della nonna, io ero dietro di lui, aprì, allungò una mano sul mio petto e mi disse di non entrare. Da fuori vedevo la nonna sdraiata sul suo letto, dalla tenda a fiori filtrava la luce del sole e formava una scia di polvere che sfiorava il pavimento di marmittoni chiari. Mi vedevo riflesso sullo specchio attaccato all’anta centrale dell’armadio di legno scuro le cui ante si chiudevano con chiavi di ottone. Papà si era chinato su di lei, emise una specie di rantolo e mi disse di telefonare alla zia perché nonna era morta. Dopo il funerale la zia Gigliola, che era zitella, si trasferì a casa nostra, diceva che papà aveva bisogno del suo aiuto per portare avanti la campagna e occuparsi di me. Papà e io non avevamo proprio bisogno di niente, secondo me, ma lei venne lo stesso. La zia Gigliola era insegnante di latino al liceo Giulio Cesare, ma oltre a quella strana lingua, che tutti dicevano che era morta, lei sapeva anche zappare, ammazzare i polli e guidare il trattore a cingoli. Un giorno la accompagnai a comprare da mangiare per le galline in un negozio che si chiamava Polli e Mangimi e il signore con i baffi biondi che era dietro alla cassa quando la vide issarsi sulle spalle il sacco di mangime di venticinque chili si innamorò di lei e dopo un anno e mezzo si sposarono. Nella sala del municipio, oltre ai due sposi, c’eravamo io, papà, le due figlie del signore con i baffi e il sindaco. Dopo le nozze andammo a mangiare nel ristorante della Pensione Kelly: mi faceva schifo quasi tutto, mangiai solo le patate al forno e la torta con la crema. La zia quel giorno si trasferì dal signore con i baffi biondi, sopra il negozio di mangimi, e così a casa restammo di nuovo soltanto papà e io.
Con tutto il trambusto che c’era stato durante quell’anno e mezzo non avevo più avuto modo di pensare a indagare sulla scomparsa di Gnoccofritto. Ma mi misi in testa che prima o poi avrei trovato le risposte che cercavo e infatti negli anni che seguirono, oltre a studiare, laurearmi, assistere alla morte di mio padre e lavorare nel Corriere di Rimini, la questione della scomparsa di Gnoccofritto fu una cosa che occupò gran parte della mia vita. Non riuscii mai a capire cosa fosse accaduto quella notte di luglio di cinquant’anni fa, fino a una sera della settimana scorsa.
Pioveva, io camminavo lungo il viale delle baracche dove vendevano le specialità gastronomiche del posto: rane e pesci gatto fritti. Passando davanti al chiosco dell’Orietta vidi seduto al bancone Jean-Louis Trintignant che teneva in mano un involto di carta paglia pieno di cosce di rana fritte dorate e se le mangiava con gusto, accompagnandole con un bicchiere di bianco frizzante della casa. Rimasi a fissarlo dalla vetrina, stavo lì con la mano destra sul vetro mentre con l’altra tenevo l’ombrello. Era l’unico cliente, e dietro al bancone Orietta lavava i bicchieri. Entrai, appoggiai l’ombrello accanto alla porta e mi sistemai i capelli che mi si erano appiccicati sulla fronte. Mi avviai verso il bancone e mentre mi avvicinavo lo vedevo sempre meglio, era proprio lui, ma era giovane. Era il Jean-Louis Trintignant dei primi anni ’60 e anche Orietta era giovane, bella, aveva i capelli biondi come il grano che brilla al sole e i suoi occhi erano del colore del miele, grandi, enormi, meravigliosi. Indossava un golf giallo canarino scollato, di angora, e aveva una catenina d’oro con il crocifisso. Sciacquava i bicchieri da vino, poi li appoggiava sul ripiano ad asciugare. Si sentiva un forte odore di fritto e di detersivo per i piatti al limone, come quello che usava mia nonna.
«Buonasera, Orietta. Vorrei una porzione di pesce gatto e un bicchiere di spuma bionda, per favore» dissi io.
Orietta non alzò nemmeno lo sguardo, entrò in cucina e ne uscì pochi secondi dopo con un cartoccio pieno di pesce gatto fritto, lo posò sul bancone davanti a me e poi dalla spina accanto al lavello riempì un boccale di spuma bionda e me lo porse. Dalla finestra dietro al bancone si vedeva la pioggia aumentare, su quel lato c’era una tettoia, dentro al locale si sentiva il rumore dell’acqua che martellava sempre più forte sulla lamiera. A un certo punto un gatto saltò sul davanzale e picchiò contro il vetro, lo guardai, era identico a Gnoccofritto, aveva le orecchie nere e il resto del corpo completamente bianco, ero certo che fosse lui. Corsi fuori con il cartoccio in mano, girai intorno al locale e quando arrivai sul retro vidi il gatto che saltava giù dal davanzale e scappava via lungo l’argine del fiume, cominciai a corrergli dietro, la pioggia era fortissima, il cartoccio mi cadde, corsi più che potevo e mi sforzai di non perdere di vista il gatto anche se era buio pesto, alla fine mi ritrovai davanti alla nostra vecchia casa, in mezzo alla campagna. Era abbandonata, il cancello era completamente arrugginito e la casa era ricoperta di erbacce. La porta era marcia, la spinsi per entrare, perché avevo visto il gatto saltare dentro dalla finestra della cucina. Appena entrato aspettai qualche secondo per abituarmi all’oscurità, ma conoscevo bene la casa e sapevo come muovermi. Sentii dei rumori provenire dal piano di sopra così mi diressi verso le scale e salii cercando di non fare rumore, avevo le scarpe piene di acqua, camminai lungo il corridoio fino alla porta della mia vecchia cameretta, era leggermente aperta: entrai e vidi una macchia bianca muoversi sul pavimento vicino alla rientranza dove una volta si trovava il mio armadio a muro.
«Gnoccofritto» dissi. Speravo che riconoscesse la mia voce. Mi parse di vederlo fermo a pochi centimetri dai miei piedi. Feci per abbassarmi chiamandolo di nuovo, ma lui con un balzo schizzò verso il buco che era nell’armadio e sparì. Di nuovo.