Vimini e castagno
di Donatello Cirone

Una cicala si era spenta, svuotata dal cantare e dai raggi prepotenti. Il suo canto, a pochi giorni dalla sua morte, si era sporcato di fango come il canto di sirene tristi e asciutte, crocifisse vive e con la pinna mozzata da vedove dolenti. Sotto l’ulivo che aveva ospitato la cicale, era stesa, su una sdraio di vimini e castagno, Giannina: le due braccia penzolavano, la bocca aperta come le gambe, respirava delicatamente, il suo corpo molle e burroso si scioglieva al sole, uno strato di sudore la impacchettava come la pellicola fa con un cosciotto di tacchino. Un impercettibile sospiro, un filo d’aria le entrava dentro caldo per uscirne rovente, come una lunga lingua di drago si perdeva nel cielo. Luccicava come un orecchino nel becco di una gazza. Bella come un ruscello in piena, come un estuario gravido di speranza. Una nuvola scesa in terra. Le dita dei piedi rossi, la pelle un lungo e soffice mantello da accarezzare, calava la notte su quel corpo soffice, sui suoi fianchi da cingere d’alloro, la luna si addormentava, stanca, sulle sue spalle forti. Il sole tornava a splendere, a scottarle le palpebre chiuse, il vento le asciugava la fronte. L’ulivo continuava silenziosamente a crescere, gli anelli aumentavano. Giannina, sulla sdraio di vimini e castagno ormai marcia e tarlata, sospirava.
Il sole sarebbe tornato, la giovinezza forse.
Un’altra cicala cantava.