Nonnina
di Luca Saracino
Nel periodo in cui il merlo indiano era scappato e anche Ilaria e a lavoro proprio non andava vendetti la macchina e cominciai a girare a piedi. Allora notai cose che fino a quel momento mi erano sfuggite: spettri che dietro a finestre armeggiano coi fili delle tende, i riti della signora delle pulizie nel lustrare le maniglie dei portoni, il percorso a zigzag verso l’edicola dell’uomo con le scarpe verdi. In quel periodo feci amicizia con un ratto morto accanto a un tombino che chiamai Mike ma soprattutto conobbi Nonnina. Ogni mattina quando svoltavo l’angolo del nuovo centro commerciale Nonnina, come la chiamavo fra me e me, se ne stava seduta sul suo balcone al terzo piano del palazzo con la facciata in mattoni rossi. Stava in mezzo a ortensie e ciclamini, gerani e camelie. Ogni mattina la trovavo lì appostata a sorridermi così che finii per affezionarmi e mi capitò perfino di pensare a lei la sera prima di dormire. Mi chiedevo quale fosse la sua storia, se fosse vedova e se i suoi figli, nel caso ne avesse, vivessero lontano. Era da poco finito l’inverno quando camminando alzai lo sguardo come di consueto e scoprii che il balcone era deserto, nessuna traccia di Nonnina, né delle piante che le davano riparo. Proseguii a testa bassa in preda ai pensieri quando incredulo me la trovai davanti nella sua solita posa. Stava in mezzo a due cassonetti, appoggiata a una vecchia lavatrice, accanto aveva vasi di plastica svuotati e uno scaldabagno arrugginito. Mi accorsi al primo sguardo che la pioggia di quella notte aveva irrimediabilmente danneggiato la cromatura del gesso e che sul suo volto non sarebbe più stato possibile distinguere alcun sorriso.