Numero 1

L’involucro

di Giovanni Floreani

Hellskitchen di Elise Reinke
Hellskitchen di Elise Reinke

Il nostro mondo, il mondo attuale, ci ha abituato ad assumere ed assimilare il tutto con una facilità allarmante e ad una velocità indicibile; e non vi è differenza, nella forma, fra aree geografiche, appartenenze sociali, livelli culturali o dimensioni professionali. Si potrebbe palesemente affermare che questo aspetto della globalizzazione infierisce su chiunque.
Fatte salve alcune zone del pianeta dove la vita, per quel poco di incontaminato che ancora esiste, scorre a ritmi per noi inimmaginabili, il Consumo ha invaso la terra, auto-connotandosi, al di fuori del nostro controllo, quale peggior virus deleterio di tutti i tempi.

L’uomo si illude di poter coniugare ricchezza e sostenibilità attraverso forme evolute di organizzazione sociale, forte, a suo dire, della enorme conoscenza tecnologica sviluppata soprattutto nella seconda metà del XXI secolo.
Nella realtà così non è: gli esempi che vanificano tali chimere appaiono quotidianamente sotto gli occhi di tutti noi. Ma non c’è il tempo, né la volontà di avvertirli.

La frantumazione costante che invade il nostro tempo e il nostro spazio appare come un’effimera soluzione che inevitabilmente si trasforma in un accumulo di problematiche; un intervento pensato per interrompere flussi negativi ed antiproduttivi, diventa esso stesso elemento di incalzante asfissia. Il frantumare, questa azione apparentemente disgregante, distruttiva, ma al tempo stesso provocatoria, modificatrice, assume spessori opposti alla sua natura: si frantuma aggiungendo laddove già c’è troppo. Un banale esempio? Gli asfalti delle città. Costruire, demolire, ricostruire… è un continuo rimaneggiare che stride con il concetto di super organizzazione ostentata dalle amministrazioni pubbliche.

Il paradosso del nostro tempo è che noi tutti viviamo dentro la frantumazione, lamentando una insostenibile tensione da essa provocata. Talvolta tentiamo apparenti rivoluzioni; quasi sempre la riposizioniamo. Vale a dire che per implicita necessità le attribuiamo valori e valenze rassicuranti e “necessarie”. Aggiungere è divenuto un percorso obbligato cui nessuno di noi può sottrarsi. Le tecnologie, ma non solo esse, tutto ciò che nasce per rendere la vita dell’uomo più agiata e agevole, sono sostanzialmente “estensioni” dell’uomo stesso, plugin, più o meno virtuali, da cui l’uomo è costantemente attratto e che l’uomo “deve” possedere. Le “cose” debbono essere a portata di mano, dentro noi se possibile; si è giunti a livelli terminali per cui il desiderio palese, premessa di una faticosa conquista, lascia spazio al morboso bisogno di “avere”. Si possiede per l’esigenza di possedere. Frantumare quindi per moltiplicare, per riempire, per aggiungere, per rimettere in circolo con forme, colori, suoni diversi, ma uguali; per offrire all’uomo un’alternativa alla Spiritualità, troppo impegnativa ed ingombrante in un mondo dalle mille e una soluzioni immediate.

L’agglomerato urbano, vale a dire un luogo che oltre a soddisfare le esigenze dei suoi abitanti in senso logistico, “impone” loro un determinato comportamento che favorisce atteggiamenti spesso artefatti o comunque “progettati per”, diventa una scatola, in tal senso, costruita ad hoc. Il contenitore, a sua volta, interna altri involucri che diventano spazi precostruiti apparentemente per collocare esigenze diversificate, che di fatto, tendono ad enfatizzare separazioni sociali, stratificazioni urbane e nette diversità dei luoghi. I centri commerciali sono un esempio esplicito: migliaia di persone, ogni giorno e soprattutto nei fine settimana, invadono ampi spazi non già per acquistare i prodotti esposti negli innumerevoli negozi, piuttosto per trascorrere una cospicua parte del loro tempo libero in un luogo protetto dalle intemperie, dal traffico e dall’inquinamento, dalla invivibilità della città frenetica. Appare sconvolgente che perfino nei pacchetti viaggio a Dubai o Sharm el Sheik, siano previste visite guidate nei grandi trade market. D’altra parte le stesse Twin Towers in gran parte, erano costituite da negozi e uffici commerciali; colpirle aveva un significato simbolico estremamente forte e, purtroppo, anche un risultato certo e agghiacciante in termini di distruzione di vite umane.

Ciò che però vorrei qui commentare è soprattutto l’influenza del luogo-città per quel che riguarda l’atteggiamento umano; non che altri luoghi , o situazioni, siano meno influenti, da questo punto di vista, sul comportamento umano (mi viene in mente la canzone UN’IDEA di Gaber che racconta degli atteggiamenti umani spesso intrapresi per significare qualcosa di non spontaneo e spesso estraneo alla persona che li assume, facendola quindi divenire personaggio: “quando, seduto nello scompartimento del treno, assaporo il gusto del viaggio voglio fare l’intellettuale e quindi leggo Hegel…”).

La città, però, spinge e acuisce una certa forma di egocentrismo e di protagonismo, mentre al tempo stesso, provoca la solitudine e gli isolamenti. Le città sembrano dei contenitori ricolmi di umani, stipati, costretti, rinchiusi; le persone ne vengono attratte come se fossero dei pezzi di metallo che inesorabilmente vanno verso la calamita.
Immagino questi contenitori nel “cosmo” indefinito, da essi proviene luce, rumore, confusione… ma restano comunque forme isolate di vita con scarsa interconnessione e, paradossalmente, uguali nei comportamenti, nelle abitudini, nell’organizzazione sociale. Quindi la città, sofisticata forma di organizzazione sociale, assolve al suo compito? Riesce a mantenere le promesse per le quali i suoi abitanti hanno deciso di viverci?

Questo aspetto, evidentemente, riguarda più che altro l’elemento psicologico: intendo dire che riflette un’analisi del rapporto dell’uomo su uomo, modificato e modificabile in relazione alla quantità. Tuttavia le differenze fra le grandi metropoli e le città cosiddette di provincia, non sono enormi. Anzi, probabilmente questi aspetti si evidenziano maggiormente nelle piccole città: “mi preparo per uscire a cena, o per un aperitivo….” , “vado in centro a fare una passeggiata”, c’è l’idea che “il centro” sia sempre il punto di riferimento. Il forestiero che arriva in città chiede quale sia la direzione per “il centro”; i negozi più raffinati sono “in centro” e via dicendo.

La tendenza , sempre più evidente, ad “abbellire” le città, fa sì che essa divenga una grande casa d’abitazione organizzata in modo tale da offrire “godimento” in ogni suo spazio ed in ogni sua funzione. Uscire, quindi, da uno “spazio privato”, la casa, e immergersi in uno “spazio condiviso”: la città. Si tratta di spazi identici; ciò che cambia sono solamente i volumi. Qui si insinua il maquillage urbano. Per esempio è abbastanza in uso la tecnica del “rivestimento” degli edifici usurati e obsoleti dal punto di vista estetico. Si interviene coprendoli con un rivestimento più adeguato, un “cambiamento d’abito”, di fatto. E’ altresì sempre più frequente, nelle città, un ricco e sontuoso fiorire di aiuole opulente, piccoli giardini che sembrano gioiellini intoccabili, fino ad arrivare, soprattutto nelle grandi metropoli alle ricche e altisonanti architetture moderne.

La Città, dal centro alla periferia: se visualizziamo la città dall’alto come un “tiro a segno” fatto di cerchi concentrici che si espandono dal centro alla periferia, forse ci viene spontaneo attribuire ad ogni fascia un punteggio, una valutazione. Se scocchi la freccia e colpisci l’ultima fascia, gli altri concorrenti sicuramente ti derideranno, allo stesso modo se abiti nella periferia “non abiti nella città”.

Quindi la cittĂ  diventa elemento disgregante, genera razzismo, provoca incolmabili distinzioni e pericolose differenze.
L’idea della progressione concentrica dal + al – appare evidente nelle organizzazioni di tutte le cittĂ ; penso, ad esempio, anche a certe cittĂ  medievali che, oltre ad esprimere questa struttura in maniera lampante ne esasperano il significato, unendo allo sviluppo orizzontale anche la progressione verticale, vale a dire la cittĂ  che sale. Probabilmente una evoluzione architettonica del “castello” dove il punto piĂą al centro e piĂą elevato, e’ anche il luogo piĂą protetto e piĂą importante.

Nella città moderna, tuttavia, questa armonia urbana e architettonica viene spesso e sempre più frequentemente meno: da un lato certi azzardi costruttivi in luoghi impensabili (penso ad esempio, certe esperienze recenti a Parigi nel quartiere de la Chapelle), dall’altro l’abitante stesso che non rispetta più una gerarchia delle frequentazioni progettata e quindi imposta.

Non mi riferisco solamente ai clochard o ai senza tetto che si aggirano nei salotti-centro come niente fosse. Penso, piuttosto, agli abitanti “della periferia” che di fatto si mescolano a quelli del centro senza che vi sia alcuna differenza (comportamentale, estetica, di linguaggio, ecc). Spesso certi luoghi “pensati per” dagli enti preposti, modificano totalmente la destinazione d’uso originaria, in relazione al tipo di frequentazione determinata dalla “gente”.
L’estremismo di questo concetto si esprime anche con altre forme più o meno interessanti, di “organizzazione sociale urbana”. Gruppi di giovani si ritrovano in uno spazio di pubblica frequentazione in maniera apparentemente casuale; effettuano momentanee forme di ostruzionismo urbano e poi scompaiono. Altri si ritrovano in luoghi inusuali ad ascoltare la stessa musica (un DJ prepara apposite playlist condivise) attraverso i lettori mp3 portatili. Insomma una rilettura della città che, in qualche modo, frantuma o comunque interferisce su questa idea statica, rigida della concentricità.

Un capitolo a parte può essere dedicato alla “musica della città”, e non intendo, ovviamente, solamente il cosiddetto intrattenimento nei locali oppure le performance di artisti da strada che spesso si possono incontrare nelle piazze, agli angoli delle vie del centro, nelle metropolitane. Penso ai suoni-rumori che l’involucro urbano produce e amplifica.
Vi è, a mio avviso, uno stretto rapporto fra il soundscape ed il landscape, vale a dire l’ambiente sonoro e il prospetto visivo; senza addentrarmi in elaborazioni scientifiche di tecnica acustica, vorrei semplicemente affermare che la fruibilitĂ  positiva o negativa di un rumore – suono è direttamente proporzionale alla collocazione del suono stesso in relazione anche, alle barriere, agli ostacoli ed ai setti deviatori esistenti nel tracciato dell’onda sonora.

Posso tranquillamente asserire, senza volontà di polemica, ma semplicemente per correttezza di analisi, che poco o nulla si fa per ammorbidire l’equilibrio fra spazio e suono. Non vi è cura di questo aspetto nemmeno negli spazi chiusi adibiti all’ascolto (auditorium, teatri, cinema, ecc) quantomeno nelle case e negli spazi lavorativi. A maggior ragione tale aspetto, importantissimo, viene maldestramente trascurato nell’involucro città.

Pur tuttavia l’orecchio umano si è assuefatto alla barbarie sonora cui è stato costretto negli ultimi decenni tanto da perdere, in termini di decibel, almeno il 30% della capacità uditiva. Sostengo anche che l’eccessivo rumore genera pericolosi stati di stress e nervosismo provocando patologie talvolta non identificabili.

Accanto alle tante “giornate del” che spesso riempiono il nostro tempo moderno appagando transitoriamente il nostro senso di colpa per non volere-potere dedicare momenti personali alla solidarietà collettiva, bella potrebbe essere l’ipotesi di coniugare la “giornata del silenzio”.

Ciò detto, immagino una scatola metropolitana dalle sonorità contestualizzate, quantunque esagerate. La città, quindi, emana le proprie sonorità come lo fa un bosco, un paesaggio marino, una foresta o un deserto; le manipolazioni o le enfatizzazioni dei suoni-rumori acquisiscono una loro ragion d’essere se avvengono per stimolare un senso o per “progettualità”. Quasi sempre il manifestarsi di un suono, seppur scarsamente tollerante, invita all’armonia se è collocato in un adeguato contesto. E’ evidente che l’approccio a forme di acquisizione sonora inusuale o talvolta stridente, richiede uno sforzo oltre misura di comprensione e di accettazione; evidentemente impossibile a realizzarsi se non passando attraverso auspicate forme di educazione musicale, sonora oltre ad una adeguata abitudine all’ascolto.

Al contrario la scala dei valori sonori delle città, in genere è il risultato di un’accozzaglia di segnali che, seppur nell’evoluzione del tempo, è inconsciamente accettata e, spesso, condivisa. Questa considerazione può essere, peraltro, assunta come realtà oggettiva di un degrado sonoro ampiamente diffuso, ma raramente osteggiato: per assuefazione, rassegnazione o, al contrario, per uno pseudo-consapevole piacere acustico o un masochistico piacere del massacro uditivo. Ciò che induce a riflessione non è tanto la tentazione ad assumere segnali audio estremi (anche nella cosiddetta Natura esistono e l’uomo li ha sempre sopportati) quanto la prolungata esposizione ad essi.

Ma tutto ciò dipende solamente dalla volontà umana, come forzata esigenza di prolungare il più possibile sensazioni estreme, oppure è la stessa forma architettonica dell’Involucro a indurre simili tentazioni?


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