Numero 7

Flume

di Marco Puleri

 

 

Zimpol di Giacomo Braccialarghe
Zimpol di Giacomo Braccialarghe

“Provare un sentimento di repulsione, distacco e rabbia per qualcuno che si è amato è umana stupidità. Guardare il mondo con occhi diversi, diventare guardinghi, sognare il possibile, ignorare la possibilità dell’impossibile, odiare il buonismo e la cieca perseveranza: fatui fuochi di un’anima stordita. Ma necessari.”

Non ero ad una lezione di filosofia. Ma mi sembravano parole sante quelle di Julian. Eravamo seduti attorno a quel tavolo da circa sei ore, e andavamo avanti a cicchetti di amaro del capo, parlando di musica e anima. Non avevo la capacità di esprimermi in musica come loro, o neppure di provare l’emozione di tenere tra le braccia uno strumento, quasi come fosse un figlio cui far dolcemente sussurarre le prime agognate parole, ma riuscivo a sentirmi comunque parte di loro. Erano ormai anni che ci vedevamo al Flume, piccola taverna del borgo vecchio di Palermo, e non sentivamo l’esigenza di cambiare, di provare precarietà, né di guardare fuori da quelle quattro mura. Per vedere poi cosa? Non c’era nulla che ci interessasse. Tutto quello che dovevamo avere dipendeva solo da noi, da ogni nostra volontà o gesto. Bastava sollevarci da quelle sedie e andare dove volevamo, quasi ad occhi chiusi, per non guardare il resto. Gli occhi in realtà li tenevamo aperti, ma era come se dormissimo vagando nell’aria pesante della vita. O almeno quella che sentivi rumorosamente vociferare fosse la vita, ma che solo disinteressatamente assentivi esserlo.

Julian era forse il più carismatico del gruppo. La sua assenza si sentiva, quando se ne andava per qualche mese in Argentina, per cercare di ricomporre i tasselli del suo passato. Era andato via ad otto anni da Buenos Aires, e quasi da subito aveva iniziato a lavorare come cameriere al Flume. Così l’unico mondo esterno a noi che conoscesse restava Buenos Aires, con la sua animosità, il suo derby Boca-River, in cui si entrava alla Bombonera vestiti e carichi, e si usciva letteralmente nudi e sfiniti. Mi ripeteva sempre: “Tu ci staresti da Dio lì. Già ti vedo per le sue strade, sorridere e gioire di un’esistenza pura e spontanea!”. E così mi stimolava a lavorare, più che altro a guadagnare quel gruzzolo necessario ad acquistare almeno i voli. Poi lì i suoi cugini mi avrebbero aiutato. E quelle che sembravano, e alla fine forse lo erano, chiacchiere da bar, erano di colpo diventate le fondamenta di un progetto di vita, del sogno da custodire durante le abbacchianti serate passate al tavolo del Flume. Ad oggi sono il factotum del locale, dividendomi tra bar, commissioni, e servizio ai tavoli. Non mi stanco mai veramente, ho tutto quello che mi serve qui dentro. Scelgo la musica, parlo con la gente, ascolto, bevo, fumo, e così tutto scorre con una semplicità incredibile; le cosiddette ambizioni e la voglia di strafare non mi sfiorano e non riescono a farmi male.

Un pezzo dei Blonde Redhead andava dritto, a bucare le strette pareti del locale. Stroncava d’impeto anche la mia voglia di pensare, di rodermi dentro ad un’immagine ricorrente e invadente, e mi invogliava a filar via, bottiglia di Merlot in mano a servire ai tavoli. Era facile lasciarsi prendere dalle miriadi di conversazioni, dialoghi, confronti che si alternavano dentro questo gazebo. E la prospettiva di essere proprio il cameriere, e di vagare tra i tavoli, cogliendo significati qua e là, anche singole parole enfatizzate dagli effetti di un negroni, mi eccitava. Era come se il mio desiderio di ascoltare storie, di osservare, o quantomeno condividere dei piccoli istanti di realtà fosse ora più facile da soddisfare. Tra le espressioni che coglievo più di frequente, e che ormai per la mia interpretazione dei fatti non erano altro che un puro intercalare, senza dubbio c’erano: “è solo che te ne devi convincere…” oppure “Puoi sbatterci la testa contro quanto vuoi” o ancora “Fanculo a tutto, tanto non cambia niente”. E’ da un paio d’anni che lavoro qui al Flume. E continuo a versare del Merlot, o a servire del thè. E poi mi siedo, e osservo. Stretti nel gazebo, fumiamo. Non ce ne rendiamo conto, ma siamo tutti insieme a farlo. Ed è così che creiamo la nostra verità, qui al Flume. Ignoriamo la gente che passa per la strada, perché è il fumo a delimitare il nostro angolo di esperienza, ad aprirci al nostro scorcio di vita, senza parole. Mentre mettevo su Nude dei Radiohead, vedevo quell’uomo al tavolo in fondo al gazebo gesticolare come un folle, e parlare, parlare, parlare. Veniva spesso qui. Ancora non ero riuscito a farmene un’idea precisa. Si sedeva al tavolo sempre verso le 11 di sera, con un seguito di sognanti ammiratori, che gli avrebbero pagato da bere tutta la serata. Era un chiromante dal forte accento palermitano. Uno zampanò dei nostri tempi, voglioso di offrire la sua arte e parlare, parlare, parlare:

“È facile vedere nella mano un mezzo divinatorio, uno strumento di interpretazione della personalità umana, attraverso la sua forma ed i segni particolari del palmo…”

E poi, prendendo la mano di uno dei ragazzi, gridava:

“Che la tua mano affermi ora la tua verità, senza indugi!”

Nel frattempo, continuavo a portargli del vino rosso, che prontamente tracannava, senza lasciar intendere al suo pubblico che il conto non sarebbe di certo stato a suo carico.

Quando mi fermavo giusto il tempo di una sigaretta, godevo di quello sguardo completo sulla scena che si creava sul gazebo. E di come la sua posizione, di lato alla via, giusto di fianco al marciapiede calcato dai passanti, gli desse davvero un’aura di teatralità. Soprattutto la sera quando le luci basse evidenziavano solo le forme degli alberi, le voci iniziavano a farsi meno assordanti, e il Flume era sempre lì.

A volte mi capitava di seguire per puro caso intere conversazioni, ed in parte la cosa mi disturbava. Non volevo invadere i mondi di nessuno, io! Volevo solo servire da bere, e lasciare che la mia immaginazione rielaborasse quei quattro, cinque input ricevuti nei pochi istanti in cui ero nelle vicinanze. Ma quando mi capitava…davvero, non riuscivo a tenermene fuori. Le introiettavo con violenza dentro di me, e cercavo di trovare un significato a quelle parole ascoltate così per caso. Come se il destino mi avesse voluto lì in mezzo in quel momento.

E così poi tornavo dentro a rifugiarmi, per un attimo, dietro al bancone. E lasciavo che andasse Jeff Buckley a calmare tutti gli animi, a spinger via dubbi e noie fuori dal gazebo. Era quella la mia di noia. Quella snervante attesa del cambio di direzione. Ed oltre a versare del Merlot, sono un attore. Un attore di tempi morti. Di lunghe pause di fronte ad un telefono, in attesa che qualche amico mi tiri su uno dei suoi progetti, e così possa ricominciare a vivere, a dire la mia. Mi ero creato il mio spazio “attoriale” dietro il banco, a mò di promemoria della mia natura di teatrante. Un cumulo di appunti presi lungo il corso della giornata, lì posti proprio ad uccidere quei tempi morti. Le definivo “intuizioni creative”, e stavano lì, tra una bottiglia di Amaro del capo ed una di Gin. Erano anche loro in stand-by.

Proprio ora notavo che un ingegnoso ferma-carte era poggiato sulle mie “intuizioni”. Erano le scarpe di Misia, una delle nostre più fedeli clienti. Come definirla…una solitaria, innamorata clochard dei nostri tempi. Dicevano che stava sempre in giro con Karenin, il suo fedele compagno a quattro zampe. Ma io la vedevo sempre e solo qui, al tavolo, a bere il suo bicchiere di passito. E a mettere in scena il suo quotidiano show. Entrava ondeggiando e urtando i clienti. Una volta toltesi le scarpe, le adagiava così da qualche parte del locale, prima di sedersi, abbracciare Karenin, e cominciare con agitazione a sorseggiare il suo passito.

“Lui è il mio maritino. Ed è così dolce con me che quasi non riesco ad allontanarmene neanche per un attimo. Ogni volta che percorriamo la strada verso questo gazebo insieme, e tagliamo in due la piazza qui di fronte, ci fermiamo giusto il tempo di una sigaretta su di una panchina. È come se ripetessimo il momento più bello della nostra vita infinite volte. E allora vivo. Sì, sento di vivere.”

E a volte davvero mi stupivo di come, vagando con piccoli balzelli per il Flume, raggiungesse il luogo di volta in volta scelto per le sue scarpe. Quella volta, però, cadde rovinosamente su di un uomo seduto al bancone, rovesciando tutte le sue carte e provocandone una reazione a dir poco rabbiosa. Intervenni subito cercando di sedare gli animi, e lasciando che Karenin e Misia scappassero via, ridendo di gusto. L’uomo, imbronciato, continuava a fissare le sue carte sparse per terra, e farfugliando imprecazioni di vario genere, afferrò tutto in fretta e furia e, scuotendo la testa, lasciò anche lui il Flume.

Così, come al solito, rimasi io a riordinare. Iniziai a pulire tutte le tracce di quell’inaspettato ed insolito abbraccio. Fu così che trovai un intruso tra le mie “intuizioni creative”. Era un taccuino di colore giallo sbiadito. Incuriosito, lo sfogliai, trovando una poesia scritta a matita.

I tuoi occhi neri
Mi fissavano
Di un annebbiato vuoto
e vagando riempivano i fondi della mia esistenza
Cantavano una melodia
Triste cantilena di abbandono
No non posso no non posso essere tua

Le tue gambe si attorcigliano a me
Quando mi gridi ancora una volta
Con i tuoi sospiri
No non posso, non è il tempo
E io abbasso lo sguardo
Non riesco più a vederti dentro
A convincerti delle nostre possibilità
A condividere la corsa verso la nostra chimera
Ti congedi da me
Mi auguri il meglio
E vai
Via
Spero da nessuna parte
Non riesco a volerti bene
Non ci riesco più
Spero che tu cada
Da qualche parte
E in silenzio al buio
Capisca
Cosa ho visto
In quegli occhi
Scuri
Di un buio ed accecante vuoto
D’improvviso

Decisi di conservare quella preziosa dote sotto le mie carte e, mentre aprivo una nuova bottiglia di vino rosso, pensai al momento in cui sarebbe tornato a riprendere il taccuino e a come sfruttare al meglio quei pochi attimi di conversazione che avrei avuto a disposizione. Prima di tornare fuori, di là, al gazebo, mi fermai per un po’ col mio vassoio di fronte alle foto appese alle pareti. E pensai. Pensai che per me questo posto rappresenta qualcosa d’importante. Specchiarmi nelle milioni di foto appese ai muri. Come a dire, “qualcosa che ti rappresenta ci sarà!”. Tutta ‘sta gente al muro ha detto qualcosa, pensa a cosa hai da dire, e vai. Dilla anche tu. Fuori da questo gazebo però.


freccia sinistra freccia