Il Faldone
di Alessandro Xenos

Avevo perso la mia battaglia. Da sola la logica non bastava. Continuavo a fissare quel faldone giallo con un grumo di lacerazioni nelle tempie. Qualche istante prima mi ripetevo: l’uomo è nato libero e in spazi aperti, la ragione è dalla mia parte. Quella breve telefonata mi confermò il contrario. Ero esausto come una Converse a fine estate. Mi sedetti sul bordo sbeccato della sedia guardando l’angolo ancora intatto dello specchio. Ero una bestia elegante. L’istinto, mi dissi, è più importante della logica. Il telefono suonò ancora, uscii, incontrai il capo e non mi accontentai solamente di dirgli quello che pensavo. Un mese dopo il cantiere chiuse, tutti a casa, tranne il capo. Da allora mi nascosi. In fuga come gli ultimi Herero. Nella mia stanza dormivamo in cinque e lavoravamo per dieci. Eppure non serviva, non potevo più riempire quel cazzo di faldone. Dentro di me qualcosa al di là della meccanica chiedeva piangendo una trasfusione di sangue. Per fortuna lei era sempre lì, anche se la connessione non era buona. A volte gridavo nel microfono per non farle sentire la lontananza. Quando la vidi all’aeroporto capii che la ragione non bastava. Le chiesi se aveva voglia di portare in grembo un passaporto per entrambi. Sarà il figlio del nostro istinto. Thomas avrà le spalle larghe, porterà il peso del nostro futuro.