Numero 5

Il cielo di Carlo

di Donatello Cirone

 

Candela di Giacomo Braccialarghe
Candela di Giacomo Braccialarghe

Il nodo della cravatta era stretto quel tanto che bastava a non soffocarlo, la condensa disegnava una cappa così fitta da formare un piccolo banco di nebbia che gli impediva di vedere dal bagno alla cucina, arrivavano dal fondo strani rumori di pentole che sbattevano con la stessa intensità dei placcaggi di Chabal, Lisa si muoveva tra i fornelli con la stessa grazia di Mrs. Doubtfire.

Mentre la nebbia si diradava, intravedeva il suo profilo, le sue mani che si muovevano del tutto scoordinate con il resto del corpo, il collo lungo a ricordare Modigliani, le braccia, le spalle larghe, le gambe eccezionalmente lisce, come se fossero sempre bagnate da getti di aloe vera e intrugli vari, il ventre leggermente pronunciato, quel tanto che basta da poterle baciare l’ombelico senza che la fronte tocchi la sua pelle profumata. Intravedeva il suo seno naturale che si adagiava come se volesse essere coccolato dal corpo, addormentato sullo sterno come un gattino dopo un piattino di latte, quella sua schiena leggermente curva, i capelli arruffati e legati da uno strano fiocco rosso. Sistemava la cucina o almeno cercava di farlo, più che una bacchetta da maestro sembrava avesse un machete in mano. Serviva una bacchetta magica piuttosto per sistemare quella cucina ma, andava bene così. Vederla lì muoversi in un mondo non suo era per Carlo come tuffarsi nel mare ed emergere dopo una breve apnea in un mondo incantato, fatto di sedie magiche e altari di bellezza che spuntavano sopra il suo cielo, un cielo verde, una collina gialla, un vento viola, un prato rosso dove cadevano a picco scale cromatiche e logiche sistemiche.  Lisa era lì con le cuffie, accennava qualche passo, e sbatteva pentole e posate senza rabbia, senza violenza, con la naturalità di un Neanderthal alla sua prima battuta di caccia grossa, un concerto di archi suonati da un esercito d’origine unna disperso nudo fra le strade della NY anni ’20.

Carlo chiuse la porta di casa e con essa il concerto e il sogno, scese i gradini, 20 passi, semaforo, 110 passi, altro semaforo, 36 passi. Fermata. Bus 96, Vico della Grazia – Largo Cimeli, 25 minuti fra altri disperati, fra altri animali metropolitani, altri uomini e donne, altre storie, altre Lisa e altri Carlo e altre mamme e altri padri, sorelle e fratelli, desolati, abbandonanti, amati e desiderati, depressi, malati, morenti, cattivi, sociopatici, altri e un po’ di tutto. Gomiti in faccia e aliti pestilenti, palpatine viscide. Quanta meraviglia! Capolinea. Fino a sera.

Caffè. Cravatta annodata e giù per le scale. Ancora, però è venerdì, mezza giornata.

Il pomeriggio passava come una mandria di gnu sotto l’attacco subacqueo di un gruppo di coccodrilli bulli e sessualmente repressi, e la sera, la sera si bruciava invece fra il divano e la tivù nell’attesa di Lisa.

Il sabato mattina era un caffè sorseggiato. Respirato, il suo profumo che si schiudeva sulla lingua. Caldo. La finestra aperta e la signora di fronte che disegnava come ogni sabato dei cuoricini sul vetro del balcone, sorrideva, gli sorrideva e i suoi occhi brillavano di giorno come fuochi fatui.
La città che si apriva chiudendosi dentro di lui  lo portava in fondo ad una grande fessura umida, contornata da lunghi steli neri e forti che si arricciavano verso l’alto a proteggerlo. Il sabato di Carlo sprofondava verso la sera e la bevuta al bar, le chiacchiere buone solo a condire a festa il silenzio e l’inutilità, la sera e il divano nell’attesa di Lisa.

La domenica, il tè alla liquirizia, il suo profumo, la vasca. La finestra aperta e il signore di fronte che come tutte le domenica mattina era intento a lisciare la canna del suo fucile, occhi neri come la pece calata dalle mura di un castello di pietra lavica. La pasta al sugo, qualche lacrima. Un film, un porno e un altro film. L’aria rarefatta della camera. La finestra e la bambina di fronte con le gote rosse, gli occhi bianchi come latte d’asina e le mani perse. Il pomeriggio e il calcio portoghese. Un film, un altro, e la prima serata di un qualunque canale. Il divano nell’attesa di Lisa.

Il lunedì mattina Lisa e la cravatta, Lisa e la cucina da ripulire, il sole e il lontano profumo dei suoi capelli sudati, le sue mani oscenamente rigate dal lavoro, il viso smunto, gli occhi stanchi che sognavano l’acqua salata, le gambe ruvide che ritorneranno lucide il giorno dopo, la schiena leggermente curva e la sua luce, la luce di Lisa che bastava in fondo a illuminargli l’anima.


freccia sinistrafreccia

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