I castelli venerati

Un poema di Federica Gullotta

 

Capitolo primo – Il passato

À deux sur un trapèze di Caroline Lassée
À deux sur un trapèze di Caroline Lassée

Quel tempo, la fotografia era del dramma; la magrezza dei filosofi;
le Messe sinceramente bigotte. E la letteratura? Overrated.
I mendicanti, sì, erano merce del Signore. La noia degli Amori ci costringeva a volgere in alto gli sguardi. E nella Poesia cullavamo il fallimento della società.
Quel tempo, l’università era degli infanti; i briganti restavano silvani e senza abbracci; i condannati senza consolazione, e senza madre

Ed eccomi spogliato di speranza.

Nel latrato del cane tutta la mia insensibilità al dolore: le orecchie, una volta, furono
sarcastiche. Gli Impegni vennero compiuti, e le rotazioni brute dei Pianeti
impallarono la Terra.
Una volta ci furono gole arse di sete per davvero.
Segnarono i confini col bastone, nel fango millenario, ma lo sventurato li valicava
comunque; il folle li osservava in preda al panico; l’avventuriero li malediceva,
e se intelligente piangeva destini di solitudine, e limiti di ferro.

No. La Poesia è un lamento bugiardo.

Un merito non virile, addormentarsi nel mezzo del grido – nel lago che non si può
toccare – al fondo della gialla coltivazione.
Nell’asprezza della cena, cosa vuoi? Vuoi forse comprensione?
Vuoi forse i ricordi?
Il tuo piccolo amore è sconvolto. Il tuo piccolo amore è lontano e vago.
Il tuo piccolo amore si fa enorme nell’estate, domina le depressioni del cielo.
Naviga sulle zattere più sontuose, e non si pente. Sopravvive e perisce per sua scelta.
Il tuo piccolo amore sperpera e replica agli Dèi. Fa salire ricordi su elefanti. Elegante
incede nel proletariato degli insofferenti. Insofferente affligge i calmi, affligge la
Natura, brucia le pozzanghere.

Le scuse sono variazioni del desiderio.

Si preparano sudari, al tuo piccolo amore – tele quasi trasparenti, tali da indurre
vergogna – lo si prepara all’arroganza che sempre colpisce;
Povero amante, non sai che non si disdegna una vita sordida, una vita breve, una
fedeltà incominciata! Non lo sai? Si ricerca l’incomprensione nelle felicità più blande
– cosi come in quelle estreme. Preparati a seguire una cometa infallibile.
Povero amante, eppure! Ti trascinerei nelle guerre, e nelle dune. Ti allontanerei dai
buoni propositi. Piccolo amante!
Sacrificato a chi vuole vivere.

Avete mai conosciuto un bambino crudele, padrone di schiavi? Uno schiavo nel
miele della carta. E’ sera. Sta chino in una stanza. Strani mobili. E’ sera, ma domani

si riserverà piatti di carne.

Domani, porteranno le sue fantasie fino alle Fiandre. I suoi denti saranno i diamanti.
Le cavalle carnivore lo guideranno nel pieno del dolore. I suoi sogni moriranno nelle
prime ore notturne, quando ancora

la gente gira per le strade, e beve.

Domani, una serenata lo risveglierà possente di solitudine. Lo vedrete incitare
uomini e donne che già rinnegavano rivoluzione, vittoria e un dolce silenzio.
Domani si aprirà una foschia diversa.
Già seccata nelle tenebre, una rugiada più lieve incoronerà le porte.
Egli crede che solo pochi spicchi dorati della vita resteranno. Per questo non
disdegna la fuga. Insegue i Morti. Per questo, rivela gli inganni della simpatia.
Egli è un assolo ramato.
Nella mattina presto, si illuminano d’arancione i bazar pakistani; docili, i Palazzi
Universitari, tremano; le trombe di marmo suonano.
Nella sua veglia testarda va verso presentimenti di paura. Lo si potrebbe anche
ritenere cattivo; disadorna la mattina e il bel tempo, ma necessita del calore.
Non teme le grandi letture, i macchinari di sterminio. Egli è severamente triste.
Gli fu dato e ripreso tutto! Nelle larghe vie di Bologna ancora qualcosa gli viene tolto.
Una parola affettuosa, forse, la stanchezza giusta di chi sa di poter tornare. Cos’altro?
Dove lo avete incontrato? Al Teatro delle Moline, alle Caserme Rosse, presso via
Rizzoli. Dove si trascina? Nulla è vero.
Sta fra vecchi partigiani nei bar nascosti di Piazza Maggiore, i bar di partigiani
soprattutto nuovi, ma anche vecchi.
Egli giudica da un esilio senza scuse. Mai rinnegò le proprie malefatte, tantomeno le
bontà. Di tutto, egli è responsabile.
Lentamente, la città è più profonda, gli amanti più stretti, i lavoratori più profani;
lentamente, si scende si scende; lentamente, si aggiunge coscienza alla coscienza,
lacrime azzurrine alle ciglia. Il Re osserva tutte le pieghe di cinismo.
Per primo credette nella felicità non sfigurata.

Nella notte nella notte ecco chi mi riemerge dal buio.
Assorti tutti nei racconti del fienile fantasma avevamo perso di vista
la Casa dignitosa e sovrana, la madre di tutti i Castelli; non vedevamo più
il suo occhio sornione sepolto dalle ciocche vermiglie piene di fumo, e la lunga
sigaretta bianca sulle labbra insanguinate.

Pace, dove sei? Una volta riposavi dopo le battaglie e la razzìe, ora ti seduce
la casa di campagna.

Nella notte nella notte. Vorremmo mille volte entrare; è tardi; abbiamo le scarpe
affondate nel buio. L’intelligenza è perduta nel desiderio di un vino incolore.

E’ ancora prima dell’alba, lo è da quasi
trent’anni.

La casa si passa il rossetto tra gli infissi legnosi, lo fa da quasi
trent’anni.

 

Capitolo secondo – La battaglia

 

Mujer esperando di Caroline Lassée
Mujer esperando di Caroline Lassée

Giovane, incomprensibile, folle.

Attraversava città disabitate svendendo cinismi da strada, quando invece

l’amore si prosciuga
procreandolo e
dividendolo

Meglio concepire l’Amore nel castello, nei mattoni neri
deve

insinuarsi una nascita divina
senza fiato a scaldarla,
e ad annunciarla.

E nel letamaio del Bacio, dove

i cavalli si stendono
e masticano

deve crescere anche un piccolo Castello, aprire la bocca biforcuta,
protendere sul Creato un lungo vagito di pioggia.

La bramosìa di denaro, e la società ai tuoi piedi; i bei profumi del sole e le gambe
finte che la gente vuole

rendere imperatrici.

L’appetito che si rifugia nell’innocenza:

nessuno lo aveva previsto.

Per tante cose i fiori annunciano morte, ma non ai criminali e agli annegati,
e nemmeno a chi guarda i giardini

ebbro d’affetto.

Per tanti uomini le croci si posano sul petto a segnare l’urto del tempo
(e il segno divino si contorce nella birra lucente e nei sogni non avverati);
ma non a chi incrocia le braccia in pura imitazione, e in essa trasborda

la sua fede!

Si piange il vuoto.

(Aveva sviluppato una strana ansia che sfumava nel verde, uno strano odio per
i giardini senza uomini, avrebbe ronzato come ape fra i fiori, gli alberi e i muretti,
per provocare un frastuono immenso, tale da svegliare i patetici uccelli del pomeriggio).
La brezza romagnola ora soffoca, e tace il grammofono delle onde fini.
Desta paura ogni movimento,

La bellezza

annerisce il tempo, troppa sofferenza nell’ora pomeridiana

rotonde settecentesche
irrorate dal sole

Ci furono epoche storiche, ere incontaminate, in cui il dolore era giunto; era giunto e
infilava il naso fra i mattoni aperti, epoche incatenate
per una sinfonia di morti.
Esistono i prati in cui nascondersi, e rubare le tane: morirò e sarò un coniglio.
Avrò una tana sicura e un prato del passato,
Farò giungere il Dolore da pareti macabre (piene di abiti), da letti adulti bisognosi
d’affetto, e calda afflizione – una febbre – arriverà compagna del dolore. Aprirò le
frontiere celesti, e i Mali faranno turbinare il gallo segnavento

della Rotonda-Settecento,

e nei fruscii delle vesti accollate PRECIPITERA’ UNA LIBERTA’ FURIOSA.
Desterò il Dio pigro, assuefatto, lo chiamerò all’ordine fra le colonne

e l’intelletto sovrano
e il distillato viola

che va dalle nuvole ai prati.
Pregherò affinché torni tutto al Cielo ciò che è caduto, e si risistemi il ricordo nel guscio
di noce; che impazienza, che prepotenza di noia, e fretta di esistenza! I fantasmi razionali
esplodono una volta soltanto, dopo essere nati.
Ma quei giorni delicati sono così vicini.
Come selvaggi fedeli alla parola data e ignari della cattiveria dell’uomo (per questo
perdenti sempre in un’ingenuità accaldata). Un medico o un mago non fa differenza:
entrambi sono più padroni delle vite che non
stare su palchi trionfali foderati di grida e meschine rassicurazioni in brodaglia

– AVETE PERMESSO ANCHE QUESTO! –

Come sopportare menti vuote di gioia? E nitriti senza cavallo? E – ancor più – strade di
un cemento

non volto al bene?

Come perdonare alle gazzelle di essere diventate uomini?
Ma quei giorni delicati sono così vicini.
Perdemmo, nella lunga battaglia intorno alle unghie di sangue sui pascoli e le rocce
scheletriche dove le capre scendevano come ombre; e non ricordo se fu una testa mia o
di capretto a sfuggire rotolando alla tranquillità vile delle mattine, delle mattine fumanti e
acerbe nei pascoli. Intanto, crescevano alcune erbe arse, e ribollivano le acque di prugna
per il martirio di chi venera l’Oltre,

-perché Oltre non si può andare,
attraverso le grotte di cera –

C’erano tutti gli amici ormai a colorire i fossi.
Alcuni ancora parlavano degli ultimi pranzi condivisi, o discutevano i diversi strati

del terreno;

Intorno agli amici – compagni – bisce capovolte annusavano la consistenza dei fegati e
delle reni attaccate ai cuori, da cui
colava un siero ingegnoso
di primaverile audacia;

Abbiamo perduto e lasciato, lasciato e perduto, siamo irredenti. Per questo abbiamo
svolto

un compito d’Amore;

Vorrei parlarti della pace segreta, ma qui la mia condanna: essere un animale che non si
abbandona.
L’Amore uguale infierisce sui propositi, l’Amore identico mi diletta di passioni
indistinguibili

fra loro gemelle.

L’Amore fotocopia del mondo, il mondo copia di un Dio stampato, un Dio stampato

da profonde viscere tecniche;

Albe discutibili, fiori incazzati, alberi che rinunciano a ballare; le stelle come grosso sale
nero, e la luna apocrifa portatrice di voglie:

Non c’è da stupirsi se si apre un orizzonte riluttante.

 

Capitolo terzo – Mestiere e alchimia

 

Lory #5 da "ecstasy" di Luca Cini
Lory #5 da “ecstasy” di Luca Cini

Avevo l’ambizione di intraprendere tutti i mestieri: unione commerciale, unione
doganale, commercio di prodotti agricoli

Neofunzionalismo

Commerciali ed economici / economici e commerciali. Momenti dinamici. Strategie e tanti interessi nazionali

convergenti,

(tutti gli affetti tendono allo stesso fine);
Grande interesse a procedere in questo modo. Elementi importanti – dice Lindbergh;

una pioggia di morbidi metalli,

interdipendenza tra il vecchio e il nuovo.

Alt, precondizioni. Anche di natura politica. Governi nazionali concepiscono l’integrazione del nero nel bianco, come il nero nel nero, e il bianco nel bianco.

/ barre in fila /

Ma poco congruenti! E composite! Risentono della follia arcana dei tetti, delle finestre, degli alberi battuti dalla pioggia. Molteplicità di attori. Ancora. Neofunzionalismo. Ancora barre. Una buona teoria alla fine. Processo di integrazione sempre ad opera di attori,

attori sbarbati con in mano
piccole bambole pelose;

ah! Si dotano di un bilancio proprio ed è già Sovranazionale – Supernazionale – Iperbolico,

il ruolo della Commissione, il ruolo del Consiglio, i ruoli per eccellenza di chi ha UNA NATURA PIEGATA. Problemi di sicurezza collettiva nazionale, sommatoria momentanea degli interessi, ma:

soddisfatti? Insoddisfatti?

Tendono a fare il loro tempo, già altri, rosei li sostituiscono, non hanno

una propria vita autonoma,

come i vecchi sugli autobus o fuori dai marciapiedi – stanno sempre fuori.

Risponde alle esigenze degli Stati? Hoffman lo dice, ai neofunzionalisti classicisti, ai classici vetri sfondati – si chiama attenzione momentanea al processo di integrazione: un ruscello ossidato – quante necessità! E volontà! E propositi!

Come i fantasmi berberi lungo le strade polverose,

Sviluppo economico consistente dopo la Seconda Guerra Mondiale (quando i berberi invadevano le botteghe conosciute):

Abbiamo bisogno di una conferma che non sia
luce sparata sulle nubi

Sicurezza, sicurezza armata e pioggia solida – Hoffman sui cuscini – e pioggia spugnosa sulle dita, sul naso scuro di Hoffman: “Ho visto al fondo delle aureole trasparenti. Solo in giorni particolarmente infami – non per mia colpa – ma per colpa collettiva – si nota la natura del vetro”;
La crisi della sedia vuota. Necessitiamo di un Nulla ragionevole, e di un Io commerciale. Ho visto Hoffman e

Hoffman l’ha vista

la pioggia che genera il nulla
la pioggia che genera il buio
la pioggia amante del vetro

Ho visto Hoffman bucare la sedia al centro per studiare la natura delle piogge e il Neofunzionalismo supremo – ho visto Hoffman – leggero nell’infermità del Tempo.

Sola, nella giovinezza dei Santi e nell’infanzia dorata e intensa dei malati, qui

piena di olezzi dolciastri

si scompone la notte primaverile, già quasi estiva – e che macerarsi nel sole – accolto dalle mura – senza ombra ed empio di calore, qui ti ricerca il giorno che tortura;

ecco, per un attimo

la quiete, la notte calma padrona delle sette stelle contate, il gallo che non canta,
ecco l’alba e il tramonto affratellati, ecco l’apice del volo, le sette stelle della Storia tutte accecanti insieme

in una morte organica

Musica pigra, musica incosciente e ribelle, devi portare l’uomo oltre la sua misura. Musica sprezzante e pura, rifugio del clero malato che abita le fronde, accompagna l’uomo verso menzogne più sicure, che possano erigere un pulpito di

angeli ambrati,

Perdonami – oh, perdonami! Se ho posto sull’altare ciò che diciamo

Verità
Le verità

Di cui la nuvola si pasce, di cui il cane si pasce, di cui si pasce
il pane viola, le catapecchie greche sull’altopiano,
e le scale automatiche assassine di mosche, dal basso in alto.
La Grande Madre di Cosina stendeva la pasta col mattarello in un’esaltazione gigante; e la stende così primitiva in una Romagna di sogno incontrollato; la stende con quattro braccia e un volto ricamato nel pianto; con dieci bocche le dà nomi – e la impasta come il mito della Dea Thethi, coi piedi immersi nelle fonti – la Grande Madre romagnola con gli occhi grondanti di profumi e il petto che arde

di strani misteri,
di miseri misteri.

Ma.

“Orribili visioni a cui ci costringete. Assurde vanità! Orgogli insensibili!
State navigando sui vostri odi e implorate perdono per ottenere

di nuovo un orgoglio!

Noi abbiamo una vita di mughetti, di non-ti-scordar-di-me, di campanule,

di giunchiglie selvatiche,

Abbiamo una vita breve e compiuta, in senso regolare, noi

insensibili ai resti di coscienza,

ripudiamo i vostri impeti di uomini punti dal tafano, che qui d’insetti

non ne abbiamo,

né coscienze, né false premure marmoree; né abbiamo menti corrose, o cosmiche ipocrisie da scandagliare sotto lo smalto. E voi, che senza potere bagnate

le ali nel gorgo dei fiumi!”

Capitolo quarto – L’abilità del sangue

 

ecstasi #3 di Luca Cini
Ecstasi #3 di Luca Cini

Ascoltami: non mi distinguo fra i fiori e le fontane. Guardai il lilla di ottobre sui giochi arborei:

Qui conobbi il nome primo.

Mi sono inclinato ai freschi accenni di settembre. Il settembre scolastico imborghesisce, ma addolcisce gli irredenti. E la talpa del Progresso? Qui scavai la prima fossa di Gioia.

Dannato il traino dei cavalli, il trailer maledetto: vi penzola una lampadina accesa, ma

 

forse meglio all’oscuro,
come i maiali all’oscuro,
come i suini ingrassati al lume,
macellati all’oscuro,

Le pennellate mi seccano tutto. Voglio mangiare da queste scatolette sospese, ma

siamo la generazione senza pane

Certamente hai camminato in vesti d’argento per gialli inesplorati. Ti hanno mai accompagnato dove si beve con lo stomaco

e si piscia con la bocca?
Ti hanno mai negato una volontà benedetta?

Almeno ingrassare per sospensione – almeno mi sia permesso inaridirmi in vigile attesa – mi sia concesso scalare all’indietro verso un pezzo di corpo staccato che mi sia concesso – inaridire lentamente come il mantello legnoso – o magari

sopravvivere e rifiorire

in altri luoghi, e profanare maestoso le tue terre.

Malattia senza colpa. Malattia non condivisa. In silenzio, la statua si infetta, la statua di Baracca, esposta ai sensi –

“Ad maiora”

Ad maiora dagli altari, dalle Chiese iridate e fervide,
ma non perché esista Dio:
se Dio esistesse, per primo le rifuggirebbe.

Ad maiora! A cose neutre. Cose neutre maggiori. Più immense da calare sui campi, col trattore che lavora, con la mucca che passeggia neutra e spoglia.

Ad maiora. Hanno bloccato architetture in pacchi di sale.

Ad maiora! Basta trovare il varco nelle reti, e dietro il varco – uno spiazzo grande e vuoto – con macchinari da lavoro spenti e

abbiamo inscenato uno spettacolo turpe

e fatale, sullo spiazzo d’asfalto, con voci gracchianti e turpiloqui sgranati. In seguito: tanti applausi di Santi, e un Dio microscopico in tribuna d’onore

come il Presidente di una squadra di calcio,

Tanti applausi, allora, tante incitazioni

a farlo ancora,
a farlo bene,

Questa ribellione di soppiatto mi gela le orecchie. Ci dicono di sbrigarci, di restare, tuttavia noi andiamo, abbiamo altri Dei e Santi da servire. Ad maiora!

Siamo protestanti infatuati d’arte cattolica; siamo spiriti pagani ricoperti
di raggiante nudità.

Allontanarsi dalle cose amate. L’integrità dei cuori non coesisterà mai con quella che scuote le prime mattine; le labbra mai avranno quei soffici coralli della luna che si bagna nei liquori albeggianti; tuttavia, allontanarsi dalle cose amate è un dolore sordo

in fondo ai tuberi;

 

Così, la commiserazione sarà una donna dei tuguri, bella e senza nome;

su ilarità perfette,

si schiuderà una chioma d’egiziana, su un ponte, e nei gonfi lineamenti di ninfa si disperderà una smorfia spaventosa –

di futuro, e generazioni slavate

bestie feroci di padre in figlio, anche se i figli vedranno più orrore e speranza nello specchio capovolto;

Bella donna corvina e incenerita, persa nelle mani che principiano ad aprirsi… piano piano …

pugnetti di zucchero nelle tazzine,

rettile d’oro nel comò defecato da gentiluomini vittoriani, ti riponi come uno scrigno, e non meriti questo Castello color granata,

e l’abilità del sangue.

I cavalli sono fintiintelligenti; vaghisuperficiali, del casato reale avelignese, scossi da lingue come
caramelle alate;

Slegato – poiché ti cercai in tanti luoghi – luoghi non moderni che parlano per sé – di lingua madre araba tuttavia

infisso in un frutteto,

Tornato qui, come da ogni luogo. Così, non ti vergogni d’aver perso l’Umanità? E quante precedenze immortali di treni

ti prendono in carico?

Pallido come navi minute che ambivano,

Ho imparato le lettere, i numeri, a mantenere le sembianze, a nascondere piccoli scherzi delle pelli,

lo sbocciare di nascite meticce.

Forse combinavano matrimoni sotto tende-garage, forse dove correvano i gattini da latte

C’ERANO GIORNI INNATURALI;

Forse le galline razzolanti si contendevano promesse di mais, e gli unici ladri – i cani da caccia – perlustravano i cortili con istinti di sangue;

Ma la serenità è un tormento inutile nel territorio dei regali equestri; nel rame dei cucchiai, nei banchetti speziati, esiste un movimento

non riconosciuto, di mezzo splendore,

e un’immagine non vista, allargata da specchi su vasti pavimenti d’avorio.

Non spaventare il mio cavallo – dietro le cataste di legna – nelle Case cave – non deve sentire – né la vista annegata – né i piedi cuciti in foglia.

Dal mio cuore mai partì alcuna iniziativa.

Non c’è sforzo: tutti mi credono dotato di un Cuore;

Talvolta, additano alcuni uomini senza amore, eppure

Io ho trovato loro sotto gli albicocchi.

Ed esiste questa disgrazia, che ho un Cuore millantato.

Dal Medioevo alle piste da discoteca, dalle lance severe a mosaici bizantini,

Povera gente disarmata!

L’Arno sul piatto mondo degli antichi, dove le Acque orizzontali viaggiavano consapevoli e calme, e le case riflesse erano Narcisi pendenti verso un bacio misterioso:

poveri Fiumi continui!

Pretendere di distribuire sentimenti, ecco un morbo inflessibile, un morbo contemporaneo ultraintelligente – ma io assorbo pietà nell’ignoranza.

Annuncio una mancanza a tutti di rispetto assoluto, una morbosa ingenua crudeltà, che siano i campanili a giudicarmi, e la pancia

di Santa Maria Novella!

E prova dolore per quei tetti vitali che si piegano all’alto.

Capitolo quinto – Oriolo Bacchico

 

ecstasi #2 di Luca Cini
ecstasi #2 di Luca Cini

Non contaminare la mia discesa verso i boschi – lascia una sana libertà – Mondati dai garofani, lascia – i fagiani tornare stanchi – allucinati – con un filo di voce – che gli innamorati

non vogliono.

Il giovane e l’adulto arrossiscono sul fogliame.

Se hai sempre vissuto in grandi città,

nei tripudi elettrici,

Dovresti solo piegare le tue volontà – essere Realtà rivelata – e non rinnegare ciò che lascivo si distende. Talvolta decido di disprezzare ciò che precipita: un corpo, talvolta un cervello (di più il cervello), e credo fermamente in un falso e ridondante adagio, un servilismo che illumini le menti – tra immondizie che premono

per una tenera compagnia.

Quando la Poesia avrà fine – quando sarà terminato il lavoro del fagiano lento nell’annunciarsi ma forte e rapido nel volo –

Camminerò trattenendo le lacrime – per salite e discese ocra – le scarpe sozze di fango – i pensieri sporchi di inattesa – ogni erba immobile nel tempo eterno – e le tendine di luce

Ma non si poté partire, una volta?

Mi lascerò piangere fra i prati, in lutto per le vigne che si avviano – per i piedi recalcitranti – finalmente – mi lascerò prendere nelle desolazioni a picco orientate verso feretri vichinghi – galleggianti negli stagni – nelle carezze non riconosciute

mi farò giovane ed adulto,

per una stessa strada stellata. Lo so, nessuno potrebbe leggere

demoni sulle cortecce, o

nella casa privata di un ricco costruttore di città: bevevano birra artigianale, accendevano lampade sui tavoli.

Avrò una torta di nuvole, la riconoscenza di erbe anarchiche soleggianti – un’abatjour di muschio inverdita dai secoli – che vede i secoli.

Avrò una madre, sì, che nessuno possiede in eredità: la Rosa che spunta sotto il Sole; e un padre-fagiano, debole, a scaldarsi.

Avrò a fronteggiarmi la nullità di motori dispersa.

Avrò un Amore peregrinante, mi lascerò cadere su ogni radice sconvolta – e ogni campo sarà gentile col mio sonno, ogni creatura solitaria berrà dal mio corpo un thè divino;

Insegnerò dalle cattedre nuovi schemi di libertà – e attraverso i branchi di insalate bluette – non avrò tempo perso.

Vorrei poi confessare alcune colpe: che sul Lago Winnebago assaltai le rovine in gabbie unite con le cime degli alberi – e quando la nebbia cominciò, folta, a disegnare graffiti in punta di matita, nei succhi zuccherini della notte

Lo ammetto, non mi fermai ai tronchi acquatici – ad ascoltare trepidante – ma

sostai in un villaggio metodista,

di brava gente, sulla tiepida culla riposai, sulla bocca di un camino, dove

donne avevano dipinto in silenzio,

forse pregando, uccelli variopinti e fantasie floreali – dove, precedendo la Creazione, si conservavano i sorrisi della timidezza –

Ammetto di aver sognato, a volte, il legno scheggiato di Milwakee, il Cardinale fulvo vigile sulle bestie scattanti –

HO AVUTO PENSIERI SEGRETI.

Alcune ragazze d’ebano sorridevano sulle secche di terra – mi avvicinavano!

Nelle volpi un potente profumo di tragedia; affamate, imbastardivano l’inverno.

È successo anche nel rosa pallido di cuffie ricciolute – tutte comprese in un’amicizia allegra – e sulle foci con nomi francesi, le dure sorgenti protette dagli orsi – il Dio comune

perdeva terreno,

sulle città non antropizzate,

Sono tutte sciocchezze di cui temiamo –

Presentimenti tipici di un quadro ad olio, delicati ma perduranti – è successo

Già nei tendoni psichedelici si accumulavano gli inverni, senza vestiti, inverni supponenti – già nelle conche proliferavano mostruosità:

Tu, tu, da dove traesti questa coda?

Capitolo sesto – La città Natale

 

Ecstasy#1 di Luca Cini
Ecstasy#1 di Luca Cini

Devo essere revisionista: esistono diverse notti nell’unica notte.

Vorrei rivedere le piantagioni mobili, le girandole di piume – mi hanno detto che avrei

Il martello colpisce più di un chiodo nel nostro Spirito: avvicinati, indegna. Le salse raggrumate delle stagioni, e strisce danzanti nel nostro periodo stanco.

Ma arrivai nelle feste migliori: perché non si offriva, si tratteneva con voracità e ferocia; non ci si scaldava allo schiocco dei legnetti nella stufa, ma

le brine congelavano i fazzoletti.

Come dall’alto sui canneti anoressici – come dall’alto sui vetri e sui liquami – nell’Oriolo Bacchico – come dall’alto sui vaccini conformisti –

Stai svenendo nella danza: e le Divinità ti sorreggono?

Allora, il volto è sereno, gli occhi cerulei, le Muse nei capelli – rigide e ordinate – nel secondo dito, un Supplizio!

Porgi una tazza d’acqua di fonte, ma di quale fonte (le fonti sono distanti chilometri), rotei su te stessa molto civilmente, bevi nel tuo Pantheon egoista –

e si atteggia a scarna figura di giovinezza!

Remoto e ambizioso, l’abisso rosso provoca nuove utopie.

Né lavando, né predicando – tutti i mortali lo stesso si stringono nel clamore d’acciaio, nelle folle untuose – lo stesso vanno cacciandoti nei boschi, e strappano corolle di fiori – nella purezza della furia ti calpestano i capelli – vanno cercando l’allergia al Peccato – nell’oriolo bacchico – nelle vene bluastre, nelle braccia eburnee – pensano che esisterà un avvenire – nelle modeste case ancora lo pensano –

Hanno tutti il rintocco delle campane a morto.

Forse su questi pinnacoli svedesi si abbatté –  sulle abitazioni medievali –  una pestilenza portata qua da vecchi topi baltici. Bella questa! Avidità mascherata da gonne candide. Le muraglie norvegesi – le severe Chiese nordiche ritte nel gelo e nell’oscurità – le suore finemente romantiche!

Questi trasferimenti sono potenzialmente infiniti.

Nelle nocche una vendetta marcia e suadente.

Forse tra queste verdure rovesciate a terra, ho confuso un mercato con una casa, una famiglia con un carciofo; era l’unica città in cui vedevano la mia rogna di decenni, e le mie malefiche scaltrezze.

Forse le abitudini erano croste mangiate dai poveri; provocavo ogni passante a riconoscere gli Astri.

Forse ero anch’io un parto di luce.

Non mi si domandava nulla. Abitavo a malavoglia nelle stazioni e mi appendevo, sempre più svogliatamente, ai terrazzi rinascimentali.

I pizzi incisi nelle carni nebbiose, nelle tovaglie esposte fuori. Nel vaso d’argilla ogni Arabo accorrendo vi mirava parole cuneiformi – nella grande piazza oscura si leggevano fiabe russe di babayaghe – e gli slavi malinconici e snelli nell’ancora grande tuono d’ombra. Sicuri bambini si gettavano sui prati di pietre, correndo correndo… I miei capelli sottili – le mie gambe inservibili ormai… Il ristoro brutale dei pianoforti borghesi! Quante vie di acini orientali, strette nel retro della città. Quante costruzioni grasse e colorate! Dove mangiano e pregano frati gioviali.

I timbri spagnoli rivoltano laggiù tenere stelle alpine. Ma le vette dei campanili, come monaci incappucciati a mezzogiorno, ti ricordano il Nord, il cielo grigio impudico – come a Conselice, come a Ferrara – l’onore della grandine a sassi.

 


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