Numero 33

Spettri

di Donatello Cirone

 


“Luna Park” di Francesca Ligios

Era come se una colonna d’aria e di piombo si fosse concentrata sulla sua testa, le tempie cedevano.
Gli occhi, in uno slancio di libertà, cercavano una via di fuga da quei bulbi così pomposamente riflessivi, da quel cervello così maledettamente concentrato sull’analisi. Troppo concentrato a cercare la matrice delle emozioni, il percorso delle sensazioni. Gli occhi invece cercavano semplicemente altri occhi per vivere senza simulare, per dare vita a un’orgia d’occhi liberi. Sentire per non vedere, provare il tocco tra le cornee, delicatamente, e poi sempre più in profondità fino al nervo, fino alla radice dove le immagini assumono forma, si caricano dopo di significato. Prima, però, la vita. La vita semplice delle cose, un tocco, una lacrima, uno scambio il profumo della pelle. Uno slancio verso un amore cieco.
La bocca desiderava congiungersi con altre mille bocche e mangiare dallo stesso piatto, ammorbidire il pane con la stessa saliva. I denti invidiosi avrebbero addentato mele lisce e straordinariamente tonde, sarebbero penetrati fino al cuore, fino ai semi. Le mani si sarebbero volute staccare dal quel corpo appesantito dalla noia delle parole per accarezzarsi da sole, intrecciarsi le dita e giocare nell’acqua. Bagnarsi colme d’amore. Le gambe si sarebbero lasciate ognuna al proprio destino, si sarebbero separate per correre verso piste ciclabili appese al cielo e alla clemenza della discesa. 

Il respiro era corto, fermo in mezzo al salone Oreste sudava, le scarpe strette – come del resto  i calzini e le mutande – lo irritavano ancora di più. Un flusso di pensieri gli comprimeva il torace come le mani di una donna obesa intenta a strappare un ultimo brivido prima della resa al piacere. Oreste era fermo e sudava, respirava male mentre nell’angolo alla sua destra Rosa prezzava la sua quotidiana dose di carezze, complimenti e rimorsi. Un nugolo di ominidi le braccava i talloni, si strusciava, si insinuava fra la sue recondite voglie raramente espresse. La carne, era la carne che cercano tutti in quell’angolo in penombra, una carne tremula che aspettava di essere bollita nelle lacrime, era carne che si intrecciava al tempo, al desiderio e alla disperazione della consapevolezza della fine. Era la carne che tutti cercavano in quell’angolo sempre più buio. Rosa si faceva sempre più tenera mentre il resto della banda appuntiva le proprie spadine, scartava le mazze ferrate per brandirle nell’aria, nel vuoto.
Oreste era fermo, sudava e iniziava a puzzare come un muflone morto lasciato al sole, le scarpe erano strette e per quella sera non si sarebbero sicuramente allargate, come invece avrebbero fatto i suoi pensieri che si sarebbero lavati fra le micro goccioline di sudore raccolte sull’areola destra di Rosa che nel frattempo era rimasta sola. Seduta alla sedia si teneva il viso fra le mani e accennava un sorriso. Oreste continuava a sudare, le mutande strette diminuivano ancora di più le sue già fragilissime certezze.
Rosa, adesso, rideva.
Il salone si era svuotato. L’angolo che proteggeva Rosa si era celato agli occhi di Oreste che adesso poteva solo immaginare il suo corpo.

In mezzo alla stanza Oreste sudava sempre meno, le scarpe erano ancora strette e il suo corpo era  illuminato a intervalli irregolari dalle luci stroboscopiche di un luna park che entravano indelicate nel salone, che sbattevano contro il suo viso stanco.
Il sudore si era asciugato, la molla delle mutande aveva ceduto, i calzini si erano bucati. Le scarpe erano ancora strette però.
La sua carne non tremava più, la sua anima scappata. I suoi occhi erano aperti e brillavano.

Rosa, per fortuna, troppo lontana.

Da “La trilogia della carne”- Primo racconto


Fondatore de L’Irrequieto, nato nella valle del Sauro, in Lucania, il 28 giugno del 1986.
Ha pubblicato due silloge poetiche: La vita di una morte, LibroItaliano, Ragusa 2005 e Gl’oratori del nulla, Amorsog et Oream, Il filo, Roma 2007.
Scritti pubblicati su L’Irrequieto.

Donatello Cirone: donatellocirone@irrequieto.eu


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