Accalappiacani
di Donatello Cirone
Il grande maremmano bianco vagabondava sempre con gli occhi spenti. Il passo però era fiero ed elegante, era bellissimo il suo pelo color lana, bianco come la neve. Tutte le mattine mettevo in tasca un paio di biscotti e una fetta di pane. Lo facevo di nascosto: non potevamo permetterci un altro essere da sfamare. Mia madre non si accorse mai di nulla o così credevo. Tutte le mattine lui era lì ad aspettarmi: divorava tutto con una velocità a me sconosciuta, poi con passo protettivo mi scortava fino a scuola. L’entrata nel cortile era ogni mattina emozionante e gloriosa. Tutti si giravano: io ero il condottiero e lui il mio fedele compagno d’avventure. Le bimbe mi guardavano ammirate, seguiva solo me Ermione. Era l’essere vivente più bello e maestoso dell’universo: i raggi del sole ci illuminavano. Ero il Gladiatore, il misero cortile della scuola con quattro alberi secchi diventava il Colosseo. Le bimbe, mie coetanee, diventavano donne che mi osannavano. Gl’uomini invidiosi per disprezzo non guadavano, ammiravano corrosi. Era fantastico vivere accanto a Ermione. All’uscita era sempre lì con l’occhio attento, veniva a prendermi puntuale, e andavamo verso casa. Mangiavo velocemente, rubavo qualcosa dalla tavola e con una scusa scendevo giù credendo di farla in barba a tutti. Dopo un po’ di anni, quando ormai già conoscevo il calore di una donna scoprii che sia mamma che papà sapevano tutto. Mamma mi riempiva di più il piatto, lasciava qualche fetta di pane sulla tavola, si distraevano assieme per farmi giocare. E quando scendevo giù trovavo il mio fedele amico affamato, assetato. Giocavamo e correvamo felici, tra i ciottoli, e io cadevo e lui con i denti gentili mi rialzava delicatamente e poi via di nuovo a correre saltando come rane.
Gli anni delle medie trascorsero velocemente, ero il bambino più fortunato del mondo. Sempre insieme, con la neve due metri e con il sole a quaranta gradi. Poi le medie finirono, io partii per la “Città ”, partivo per andare a studiare, in collegio senza Ermione. Solo. Quel posto era come una nave di pirati ammutinati, io sembravo l’ultimo mozzo, imbarcato da un giorno. La sera quando nevicava pensavo sempre al mio amico e speravo che il suo candido pelo bianco l’avrebbe protetto. Quando tornavo il sabato una volta al mese, lo trovavo davanti casa, sempre più vecchio sempre più malato. Un’ordinanza del sindaco, una sporca ingiusta ordinanza decise la soppressione mezzo fucile di tutti i cani del paesino. Uno di loro aveva fatto spaventare la figlia prediletta del sindaco, tornava tutta accaldata e sudata da una cavalcata stretta nella macchina di uno dei due bulli del paese. I leccaculo del sindaco caricarono tutti i cani su un camioncino e li portarono giù al fiume. Li legarono tutti a un palo sotto il ponte, dove di solito andavo a pescare, i colpi del fucile rimbombavano sotto quel vecchio ponte di ferro, i cani abbaiavano, latravano, si dimenavano si mordevano le orecchie. Ermione era lì fermo e stanco, vecchio e ammalato, l’occhio era come al solito spento, il suo sangue si mischiò libero con l’acqua che scendeva felice verso il mare. Il fiume si prosciugò, la figlia del sindaco partorì sedicenne, le anime dei cani e degl’uomini liberi nelle notti di bufera cantavano assieme e ululavano l’ingiustizia del potere, la notte della mia valle divenne macabra e silenziosa, l’angoscia si respirava fitta. Tutto si perse. La mia infanzia finì.